LA CORTE DI GIUSTIZIA SI PRONUNCIA SUL DIVIETO DI LICENZIAMENTO DELLE LAVORATRICI IN "ATTESA" DI FECONDAZIONE ASSISTITA - Sud in Europa

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LA CORTE DI GIUSTIZIA SI PRONUNCIA SUL DIVIETO DI LICENZIAMENTO DELLE LAVORATRICI IN "ATTESA" DI FECONDAZIONE ASSISTITA

Archivio > Anno 2008 > Maggio 2008
di Teresa Maria MOSCHETTA    
La Corte di giustizia si è recentemente pronunciata sulla possibilità di estendere le garanzie in materia di licenziamento, che il diritto comunitario accorda alle lavoratrici gestanti, anche alle lavoratrici che si sottopongano ad un trattamento di fecondazione in vitro. Come noto, la norma comunitaria che al riguardo viene in rilievo è l’art. 10 della direttiva 92/85/CEE del Consiglio concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (GUCE L 384 del 28 novembre 1992), che pone in capo agli Stati membri l’obbligo di adottare le misure necessarie per vietare il licenziamento delle lavoratrici gestanti nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza ed il termine del periodo di congedo.
La direttiva in questione precisa che per “lavoratrice gestante” deve intendersi “ogni lavoratrice che informi del proprio stato il datore di lavoro secondo quanto disposto dalle legislazioni e prassi nazionali”. Al riguardo, appare interessante sottolineare come la Corte di giustizia delle Comunità europee, anche prima dell’entrata in vigore della direttiva 92/85/CEE, ne abbia in più occasioni anticipato la portata normativa, affermando, sulla base di una interpretazione estensiva della direttiva 76/207/CEE del Consiglio, del 9 febbraio 1976, sulla parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione, alla promozione professionale e le condizioni di lavoro (GUCE L 39 del 14 febbraio 1976), che il licenziamento di lavoratrici in stato di gravidanza è illegittimo in quanto configura una forma di discriminazione diretta basata sul sesso e in quanto tale illegittima (sentenza della Corte di giustizia dell’8 novembre 1990, causa C-179/88, Handels, in Raccolta, p. I-3979, punto 13; sentenza della Corte di giustizia del 30 giugno 1998, causa C-394/96, Brown, in Raccolta, p. I-4185, punti 16, 24 e 25; sentenza della Corte di giustizia dell’8 settembre 2005, causa C-191/03, McKenna, in Raccolta, p. I-7631, punto 47).
L’organo giurisdizionale comunitario torna a confrontarsi con la tematica in questione nella sentenza del 28 febbraio 2008, causa C-506/06, Sabine Mayr c. Bäckerei und Konditorei Gerhard Flöckner, avente ad oggetto un rinvio pregiudiziale con il quale il giudice di cassazione austriaco chiede se, ai sensi dell’art. 2, lett. a), prima frase, della direttiva 92/85 CEE, possa considerarsi “lavoratrice gestante” la lavoratrice che si sottopone ad una fecondazione in vitro, qualora al momento della comunicazione del licenziamento esistano già embrioni in vitro ma questi non siano stati ancora trasferiti nel corpo della donna. Il quesito trae origine da una controversia sorta tra una lavoratrice licenziata, la signora Mayr, ed il suo datore di lavoro, la Flockner. La signora Mayr aveva ricevuto comunicazione del suo licenziamento due giorni dopo aver subito un prelievo follicorale e tre giorni prima dell’impianto degli ovuli fecondati nel suo utero, durante il periodo di congedo per malattia prescrittole dal suo medico. Conformemente a quanto previsto dalla legge austriaca, che recepisce il contenuto della direttiva 92/85/CEE, essa aveva comunicato il proprio stato al datore di lavoro entro cinque giorni dalla notifica del licenziamento e sosteneva, pertanto, di aver diritto al pagamento dello stipendio e del rateo annuo. La Flockner, dal canto suo, riteneva che non esistessero le condizioni per il riconoscimento alla signora Mayr delle garanzie concesse alle lavoratrici gestanti, in quanto al momento della comunicazione del licenziamento non era ancora avvenuto l’impianto degli ovuli fecondati nel suo utero. I giudici nazionali, chiamati a pronunciarsi sul caso, avevano espresso opinioni divergenti in merito alla sussistenza dello stato di gravidanza della signora Mayr al momento della comunicazione del licenziamento. Il Tribunale di Salisburgo aveva accolto in primo grado il ricorso, sostenendo che la tutela riconosciuta alle lavoratrici gestanti decorre dalla fecondazione dell’ovulo, compresa la fecondazione in vitro. La Corte d’appello di Linz aveva invece annullato la sentenza di primo grado, sostenendo che nel caso della fecondazione in vitro la gravidanza inizia con il trasferimento dell’ovulo fecondato nell’utero, “essendo impensabile una gravidanza isolata dal corpo di una donna”.
Il rinvio pregiudiziale presentato dalla Corte di cassazione austriaca evidenzia interessanti risvolti di carattere etico. Come noto, infatti, le legislazioni degli Stati membri disciplinano in maniera molto differente la procedura della fecondazione in vitro: taluni Stati consentono la fecondazione eterologa; altri permettono l’impianto degli ovuli fecondati nell’utero anche dopo dieci anni dalla fecondazione in vitro; altri ancora invece prevedono discipline molto più restrittive. La Corte di giustizia ritiene opportuno non entrare nel merito di questioni aventi un carattere eminentemente etico ed in via preliminare precisa subito come, sulla base del rinvio pregiudiziale presentato dal giudice di cassazione austriaco, essa debba limitarsi ad un’interpretazione giuridica delle disposizioni rilevanti della direttiva 92/85/CEE, cit. Al riguardo, l’organo giurisdizionale comunitario, partendo da una interpretazione restrittiva dell’art. 2 della direttiva 92/85/CEE, cit., afferma che “il divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti non si applica ad una lavoratrice che si sottopone a fecondazione in vitro qualora, al momento della comunicazione del licenziamento, la fecondazione dei suoi ovuli con gli spermatozoi del partner abbia già avuto luogo, e si sia quindi in presenza di ovuli fecondati in vitro, ma questi non siano stati ancora trasferiti nell’utero della lavoratrice”. In altri termini, la Corte di giustizia sostiene che la tutela giuridica della lavoratrice gestante comincia dal momento dell’innesto dei blastociti nell’utero della donna e non al momento della fecondazione in vitro.
La motivazione fornita al riguardo riprende sostanzialmente le conclusioni dell’Avvocato generale Ruiz-Jarabo Colomer che si basano su quattro considerazioni fondamentali, concernenti in particolare l’orientamento della letteratura specialistica sul tema, il significato del termine “gravidanza”, l’obiettivo perseguito dalla direttiva 92/85, cit. e la necessità di evitare che le lavoratrici abusino delle garanzie loro accordate. Con riferimento al primo aspetto, l’Avvocato generale richiama la Dichiarazione adottata dalla Federazione Internazionale di Ginecologia e Ostetricia (FIGO) secondo la quale la “gravidanza comincia con l’impianto del conceptus nel seno materno e termina o con la nascita di un bambino o con un aborto”. L’Avvocato generale ricorda come la stessa definizione che comunemente si dà al termine “gestazione” sembrerebbe confermare questo orientamento in quanto identifica la gestazione con lo sviluppo di un nuovo essere umano nel ventre materno. Da un punto di vista prettamente giuridico, l’Avvocato generale sottolinea come la direttiva 92/85/CEE, cit. miri ad evitare le conseguenze pregiudizievoli che una decisione di licenziamento potrebbe avere sulla in-tegrità fisica e psichica della donna in stato di gravidanza. Essa, pertanto, si applicherebbe esclusivamente ai casi in cui si riconosca la necessità di proteggere la condizione biologica della gestante e non quando si ponga il problema di tutelare in astratto il diritto della donna a procreare. Quest’ultimo diritto, infatti, potrebbe sì trovare riconoscimento nel diritto comunitario ma non nella direttiva in questione. Infine, l’Avvocato generale, considerando l’ampio ventaglio di disposizioni nazionali sulla possibilità di conservare i preembrioni vitali anche per alcuni anni prima dell’impianto, paventa il rischio che l’estensione della tutela accordata dalla direttiva 92/85/CEE, cit. alle donne che non abbiano ancora ricevuto l’impianto dell’ovulo fecondato in vitro protrarrebbe il divieto di licenziamento per un periodo indeterminato e incerto, permettendo possibili abusi o comunque snaturando l’obiettivo della norma invocata che è quello di garantire le donne già incinte.
La sentenza della Corte di giustizia manifesta una certa prudenza nell’intervenire su questioni aventi fondamentali implicazioni etiche su cui non sembra possibile rilevare l’esistenza di un comune sentire all’interno dei paesi membri della Comunità europea. La stessa Corte di giustizia sottolinea come non sia possibile pervenire ad una indicazione certa sul momento in cui ha inizio la gravidanza in seguito a fecondazione in vitro, esistendo al riguardo diversi orientamenti scientifici ed etici. Cio-nonostante, l’organo giurisdizionale comunitario non rinuncia a riconoscere una particolare tutela a soggetti che vengono a porsi in una posizione di potenziale debolezza in ambito lavorativo. In mancanza di specifiche disposizioni comunitarie sullo status giuridico delle lavoratrici in attesa di fecondazione artificiale, la Corte di giustizia ricorre ancora una volta alla direttiva 76/207/CEE, cit. sulla parità tra uomini e donne nell’ambiente di lavoro per sostenere l’illegittimità del licenziamento della signora Mayr qualora il giudice a quo riscontrasse, quale causa principale del licenziamento, l’astensione della donna dal lavoro motivata dalle cure necessarie per la procreazione assistita. La direttiva in questione offre una tutela più ampia rispetto alla direttiva 92/85/CEE, cit. precisando che “il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso direttamente o indirettamente” e che “la sua applicazione richiede che siano garantite agli uomini ed alle donne le medesime condizioni”. In altri termini, se una donna viene licenziata per cause che possano riscontrarsi anche con riferimento a lavoratori maschi, il licenziamento non costituisce discriminazione basata sul sesso. Se invece la lavoratrice donna viene licenziata per situazioni che concernono esclusivamente il suo essere donna allora il licenziamento costituisce una violazione del principio di parità di trattamento tra uomini e donne. La fecondazione in vitro è una procedura che riguarda direttamente soltanto le donne per cui un licenziamento che trae origine dalla scelta della lavoratrice di sottoporsi all’inseminazione artificiale costituisce chiaramente una discriminazione diretta basata sul sesso. Le parole che l’Avvocato generale Ruiz-Jarabo Colomer utilizza al termine delle sue conclusioni sintetizzano chiaramente l’orientamento della Corte di giustizia sul tema: “il fattore decisivo per parlare di discriminazione è […] che il licenziamento sia avvenuto a causa della maternità, in atto o anche solo in potenza. Non si tratta di ‘blindare’ a tempo indeterminato contro il licenziamento ogni donna in età fertile o intenzionata a procreare, neppure quella che abbia cominciato un lungo e penoso processo di procreazione assistita, bensì di evitare comportamenti del datore di lavoro contrari al principio di uguaglianza tra uomini e donne o all’obiettivo primario in ogni società moderna della tutela della procreazione”
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