50 ANNI TRA UTOPIA E REALISMO - Sud in Europa

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50 ANNI TRA UTOPIA E REALISMO

Archivio > Anno 2007 > Febbraio 2007
di Ennio TRIGGIANI    
Non è agevole tracciare in poche righe le linee essenziali dei 50 anni di sviluppo dell’integrazione europea trascorsi dal “fatidico” 25 marzo 1957 quando, nel Campidoglio di Roma, furono firmati i Trattati Cee ed Euratom. In questi decenni si sono compiuti tanti atti politici, approvate tante norme, adottate tante misure che risulta oggettivamente difficile fornire un quadro sufficientemente ampio ma nel contempo sintetico dei progressi raggiunti.
E tuttavia è certamente possibile chiarire il “senso” di un’operazione senza precedenti nella storia della Comunità internazionale, perché è proprio nell’essere “senza precedenti” il fattore decisivo della sua identificazione. La grandezza dell’integrazione europea risiede infatti nella vera e propria frattura operata con le vicende politico-istituzionali fino a quel momento determinatesi con l’ulteriore capacità di offrire una reale alternativa nella conduzione dei rapporti tra gli Stati:“novità” e “diversità” sono quindi i dati peculiari di ciò che oggi chiamiamo Unione Europea, entrambi ricchi di implicazioni e significati.
La “novità”. Questo primo dato è anzitutto espresso dal primario obiettivo della pace quale collante irrinunciabile nel rapporto tra i popoli europei. Certo esso è riconducibile, in termini sufficientemente espliciti, a quanto scritto già nel 1795 da Immanuel Kant nel suo splendido saggio sulla Pace perpetua in cui teorizza che “lo stato federativo è infatti l’unico compatibile con la libertà dei singoli Stati”. Concetti ripresi da personaggi dei quali è nota la vocazione europeista quali Mazzini, Cattaneo, Proudhon ma anche da altri come Garibaldi, chiamato a presiedere il Congresso pacifista di Ginevra del 1867 dal quale nascono la “Lega per la pace e la libertà” ed il periodico intitolato Gli Stati Uniti d’Europa. Victor Hugo dichiara a sua volta, nel discorso d’apertura del Congresso della pace a Parigi il 21 agosto del 1849: “Verrà un giorno in cui voi – Francia, Russia, Italia, Inghilterra, Germania – tutte le nazioni del continente senza perdere le vostre qualità distinte e la vostra gloriosa individualità, vi fonderete in modo stretto in un’unità superiore, formerete in modo assoluto la fraternità …” .
Fra le due guerre si sviluppano vari ma infruttuosi tentativi e Carlo Rosselli, in un articolo su Giustizia e Libertà del maggio 1935, scrive dall’esilio parigino: “È necessario indicare alle masse … un grande obiettivo positivo: fare l’Europa … All’infuori di ciò non esiste possibilità di vera pace e disarmo … Prospettare sin d’ora la convocazione di un’Assemblea europea, composta di delegati eletti dal popolo, che in assoluta parità di diritti e di doveri elabori la prima costituzione federale europea, nomini il primo governo europeo, fissi i principi fondamentali della convivenza europea, svalorizzi frontiere e dogane, organizzi una forza al servizio di un nuovo diritto europeo, e dia vita agli Stati Uniti d’Europa”.
Tuttavia è solo con il Manifesto di Ventotene scritto fra il 1941 ed il 1942 da Spinelli, Rossi e Colorno che queste espressioni ideali cominciano ad acquisire più concreta valenza politica per tradursi, soprattutto grazie all’iniziativa di Altiero Spinelli, in un vero e proprio strumento politico che porta alla nascita nel 1943 del Movimento Federalista Europeo. “Insolubili sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la vita internazionale del continente (…) che troverebbero nella Federazione Europea la più semplice soluzione, come l'hanno trovata in passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte delle più vaste unità nazionali, quando hanno perso la loro acredine, trasformandosi in problemi di rapporti fra le diverse provincie … E quando, superando l'orizzonte del vecchio continente, si abbraccino in una visione di insieme tutti i popoli che costituiscono l'umanità, bisogna pur riconoscere che la federazione europea è l’unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo…”.
La pace costruita dalle Comunità europee è stata la più efficace e concreta realizzazione dei principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite, che per la prima volta ha dichiarato l’illiceità della guerra secondo il diritto internazionale. Ed il progressivo allargamento dei Paesi membri dagli iniziali 6 agli attuali 27 è la evidente affermazione di tale risultato su di una scala sempre più vasta territorialmente.
Ma come non qualificare assolute novità la creazione di istituzioni sovranazionali dotate di poteri effettivi, una produzione normativa autonoma in grado di travalicare la mediazione statale per rivolgersi direttamente ai cittadini di tali Stati anche imponendosi sulle norme interne eventualmente configgenti, l’esistenza di una giurisdizione a sua volta autonoma di fronte alla quale debbono piegarsi i tribunali nazionali. E che dire della nascita di una moneta comune, l’euro, che ha democraticamente sostituito le monete dei singoli Stati ergendosi anch’essa a simbolo concreto di un processo unico; o quale altro riferimento esiste per il costante tentativo di proiettare a livello continentale il valore della solidarietà sociale, cercando addirittura di offrirne una versione (anche se per ora del tutto inadeguata) quasi universale (vedi la Convenzione di Cotonou)? È certamente “nuova” una realtà economica che si è occupata non solo di mercanti ma ha strappato dalle secche del provincialismo e liberalizzato la circolazione di persone come gli studenti dell’Erasmus ed i disoccupati, ha fornito dignità e protezione al cittadino consumatore, ha piegato le esigenze dell’economia alle logiche della protezione ambientale, ha in sintesi realizzato il più alto compromesso fra capitale e lavoro.
La “diversità”. Il processo di integrazione non solo è unico nei suoi contenuti e nelle sue dinamiche e quindi nuovo, ma è anche diverso; e lo è non solo perché esprime le diversità culturali di cui è stata ed è ricca un’Europa ben lontana, in quest’ottica, dal correre pericoli di grigia omogeneizzazione. L’errore che, probabilmente, viene spesso fatto nel tentare di leggerne i complessi significati deriva dalla utilizzazione di schemi concettuali elaborati rispetto ad altre situazioni, realtà e tradizioni culturali. Sul piano giuridico, ad esempio, gli studiosi dei diritti internazionale, costituzionale, comparato, privato tendono inevitabilmente ad utilizzare gli strumenti interpretativi tipici della propria disciplina scientifica cercando di “piegare” ad essi la realtà europea. Siamo sicuri che lo stesso “cuore politico” dell’ipotesi di una federazione europea, anche qui per esemplificare, possa ricondursi alle accezioni tipiche di una tipica costruzione federale? Ed allora è forse giunto il momento che il giurista cominci invece a “rinnovare” la propria scienza in funzione di questa realtà cercando di trarre dalle indiscutibili “novità” che essa quotidianamente riesce ad esprimere l’elaborazione di teorie ed istituti “diversi” ed autonomi come diverso e autonomo è il processo di integrazione europea.
È questo il caso, ad esempio, della nozione di “cittadinanza europea” per la quale viene sin d’ora meno una delle connotazioni ideologiche che “riempivano” il concetto di cittadinanza, e cioè la nazionalità. Le attuali società nazionali sono ormai plurietniche, plurireligiose, anche plurilinguistiche per cui il concetto di “appartenenza” va ripensato dal giurista non in riferimento agli orientamenti etnico-culturali prevalenti ma ai principi sui quali si basa lo Stato di diritto. Essi diventano il “comune orizzonte interpretativo” fondato su di un preciso legame fra diritti umani ed esercizio della sovranità rendendo possibile l’esercizio stesso della sovranità popolare. Più che la mera proiezione del titolo di cittadino a livello sovranazionale, quindi, rileva soprattutto il contenuto nuovo che si riuscirà a dare all’idea stessa di cittadinanza, rispetto ai modelli anteriori, nonché la sua stessa sostanza politica nel sistema dell’Unione.
Tali considerazioni valgono ovviamente anche per altri settori delle scienze umane, dove peraltro non mancano coraggiosi tentativi di rimettere in discussione i più sicuri, perché tradizionali, strumenti di indagine per adattarli a quanto richiesto dalla incredibile “novità” espressa dal secolo scorso.
Si tratta in fondo di cogliere il messaggio che era nemmeno troppo implicito nelle parole di Altiero Spinelli: “occorre fin d’ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far sorgere il nuovo organismo, che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un largo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali, spazzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni, dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l’autonomia che consente una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli…Poiché sarà l’ora di opere nuove, sarà anche l’ora di uomini nuovi, del movimento per l’Europa libera e unita!”.
Necessità dell’utopia. L’UE rappresenta oggi l’unico “collante” in grado di qualificare politicamente la dimensione transanazionale in cui oggi si collocano le persone ed i loro diritti individuali e che viene tuttavia vissuta, in particolare dai giovani, in termini generici o inadeguati.
Ciò dimostra che a volte l’utopia è meno irrealistica di quanto possa apparire. Lo stesso ampliamento dell’UE, al di là dei complessi problemi che porta con sé, esprime un valore indiscusso proprio attraverso la concreta “esportazione” del progetto-modello della pace che fino a pochi decenni or sono poteva apparire un’utopia e che invece oggi è un’indubbia ed acclarata conquista.
L’indubbia crisi dello Stato contemporaneo e delle sue istituzioni, ampiamente registrata già nel secolo appena trascorso, non può non trovare risposte adeguate da parte della comunità internazionale. E d’altronde senza l’ispirazione dell’utopia il mondo è condannato a volare basso e quindi a dimostrarsi inadeguato nel risolvere le terribili sfide poste da questo inizio del terzo millennio: fame, inquinamento ambientale, risorse idriche, risorse energetiche, flussi migratori, terrorismo…
Il Presidente Napolitano, in un suo saggio (Europa politica, Roma, 2003), ha fatto opportuno riferimento a due grandi protagonisti italiani dell’integrazione europea quali Alcide De Gasperi “lo statista lungimirante” ed Altiero Spinelli “il paladino del movimento federalista” definendoli entrambi “né meschinamente realisti né astrattamente utopisti”. L’intera Comunità internazionale ha oggi assoluto bisogno di una Europa che sappia recuperare l’idealità del Manifesto di Ventotene, conciliando virtuosamente utopia e realismo.
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