IL "NUOVO" DIRITTO DELLA CONCORRENZA TRA TRATTATO DI LISBONA, NORME NAZIONALI PER IL RECUPERO DEGLI AIUTI ED EFFICACIA DEL GIUDICATO - Sud in Europa

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IL "NUOVO" DIRITTO DELLA CONCORRENZA TRA TRATTATO DI LISBONA, NORME NAZIONALI PER IL RECUPERO DEGLI AIUTI ED EFFICACIA DEL GIUDICATO

Archivio > Anno 2008 > Dicembre 2008
di Luigi D'AGOSTINO (Avvocato – Ex stagiaire strutturale DG Competition – State Aid)    
Con la legge recentemente approvata n. 101 del 6 giugno 2008 di conversione del Decreto Legge n. 59 dell’8 aprile 2008 recante “Disposizioni urgenti per l’at­tua­zione di obblighi comunitari e l’esecuzione di sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità europee”, il le­gislatore nazionale intende, forse per la prima volta, imporre normativamente un nuovo riassetto dei rapporti tra diritto interno e comunitario, meglio adeguando il proprio or­di­na­mento a principi giurisprudenziali con­solidati e soprattutto al fine di sa­nare alcune procedure di infrazione ed impedire che l’Italia sia nuovamente condannata dalla Corte di giustizia con il rischio di pa­gamento di multe assai pesanti.
La norma in commento disciplina più restrittivamente l’intera materia del recupero degli aiuti di Stato concessi in violazione del diritto della concorrenza e se­gna­­tamente dell’art. 88, comma 3 Tce innanzi agli organi di giustizia civile e tributaria. Va ricordato che la disposizione principe in tema di aiuti di stato è l’art. 87 par. 1 del trattato CE ove si prevede che “sono in­compatibili con il mercato comune, nel­la misura in cui incidono sugli scambi fra gli Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”.
Seppure si utilizzi il termine Stato, sono censurabili gli aiuti concessi da qualsivoglia autorità pubblica o direttamente o tramite soggetto da essa controllata, e quindi anche quegli aiuti erogati da enti locali territoriali quali Regioni, Province, Co­mu­ni o entità periferiche degli Stati (Corte di giustizia 24 ottobre 1987 causa 284/84). È necessario però che l’illegalità dell’aiuto (ove non preventivamente notificato o erogato prima dell’autorizzazione) o l’incompatibilità con il mercato comune vengano valutate dalla Commissione a seguito di un procedimento di indagine formale che, ove si concludesse con una decisione ne­gativa, imporrebbe allo Stato interessato l’adozione di ogni mi­sura utile per il recupero dell’aiuto, attraverso una ve­ra e propria decisione di recupero.
Allo scopo, l’art. 14 del Re­golamento 659/99 dispone che: “il recupero vada effettuato senza indugio secondo le procedure previste dalla legge dello Stato membro interessato, a condizione che esse consentano l’esecuzione immediata ed effettiva della decisione della Commissione”. Il legislatore comunitario quindi, se per un verso consente con una norma di favore che lo Stato interessato dalla procedura di recupero applichi il proprio diritto nazionale, per altro verso richiede che lo specifico ordinamento introduca nel proprio interno ogni norma o meccanismo procedurale che renda immediata ed effettiva l’azione di ripetizione dell’indebito irregolarmente concesso, non potendosi consentire prassi o disposizioni di qualsiasi rango, finanche regolamentare, che abbiano l’indesiderato effetto di vanificare l’ordinato recupero. Solo a titolo di esempio, la Curia lussemburghese ha escluso in passato ogni valenza al termine di scadenza per la ripetizione di indebiti prevista dalla legislazione interna sicché “l’autorità nazionale competente è tenuta, in forza del diritto comunitario, a revocare la decisione di concessione di un aiuto attribuito illegittimamente, conformandosi alla decisione definitiva con cui la Com­missione dichiari l’incompati­bilità dell’aiuto e ne ordini il re­cupero, anche quando abbia la­sciato scadere il termine a tal fine previsto dal diritto nazionale a tutela della certezza del diritto (Corte di giustizia 20 marzo 1997 causa C-24/95).
Avendo come sfondo il summenzionato palcoscenico normativo e giurisprudenziale, il Governo introduce il “Decreto salva infrazioni” operativo sin dal 9 aprile 2008, tentando soprattutto di sanare le principali infrazioni che rischiano in immediato il ricorso della Commissione in Corte di giustizia ai sensi dell’art. 228 Tce sul mancato recupero degli aiuti di Sta­to sia a società municipalizzate che a favore dell’occupazione.
Il Ministro Bonino, nel Consiglio dei Ministri, in sede legiferante, rendeva evidenza di come la Commissione avesse ri­chiesto all’Italia il completamento delle operazioni di recupero già entro il termine di scadenza dei pareri motivati fissati al 31 marzo 2008. Per entrambe le procedure, la Corte di giustizia ha già condannato l’Italia e nonostante le amministrazioni interessate abbiano attivamente proseguito le operazioni di recupero, già avviate negli scorsi anni, il nostro Paese ha ricevuto nel gennaio 2008 due pareri motivati, anticamera del secondo deferimento alla Corte di giustizia e delle conseguenti sanzioni fi­nan­ziarie. Come ammesso dallo stesso Governo nel dossier in­formativo a supporto del Decreto 59/2008, l’aggravamento del­le procedure di infrazioni è stato determinato, in origine, dal tem­po impiegato per individuare i beneficiari e gli importi da re­cuperare e successivamente, per effetto dell’adozione da parte dei competenti organi giurisdizionali nazionali di ordinanze di so­spensione dei procedimenti, a seguito di ricorsi presentati dai destinatari degli ordini di recupero degli aiuti. Il decreto salva infrazioni di fresca adozione si rendeva così indifferibile sia al fine di sbloccare ed accelerare le procedure di recupero attualmente sospese dai giudici nazionali delle giurisdizioni civili e tributarie, che per allineare concretamente il diritto processuale italiano a quei requisiti di immediatezza ed effettività imposti dal diritto comunitario della concorrenza.
Nel dettaglio, l’articolo 1 del d.l. 59 convertito nella legge 101/108 (GURI n. 132 del 7/06/08) limita la possibilità per il giudice civile di concedere la sospensione dell’efficacia del titolo di pagamento solo ove ricorrano, simultaneamente, le se­guenti condizioni: a) gravi motivi di illegittimità della decisione di re­cu­pero, ovvero evidente errore nell’individuazione del soggetto tenuto alla restituzione dell’aiuto di Stato, o evidente errore nel calcolo della somma da recuperare e nei limiti di tale errore; b) pericolo di un pregiudizio imminente e irreparabile. Il secondo comma dello stesso articolo disciplina la sospensione del giudizio, ravvisandone i presupposti ed il contestuale obbligo per il giudice di rinviare la questione alla Corte di giustizia delle Comunità europee, con richiesta di trattazione d’urgenza.
Il ricorrente deve però aver già esperito i rimedi in sede di Unione europea sicché non può, in ogni caso, essere accolta l’i­stanza di sospensione dell’atto impugnato per motivi attinenti alla legittimità della decisione di recupero quando la parte non abbia impugnato la decisione di recupero ex art. 230 Tce oppure non abbia esperito i rimedi di cui all’art. 242 ovvero qualora tali rimedi non siano stati accolti dal giudice comunitario. Il ri­goroso approccio viene completato da un giro di vite anche sui termini processuali.
Se la sospensione è accolta, il giudice fisserà l’udienza di trattazione entro 30 giorni e la causa sarà decisa entro i successivi 60. Dopo 90 giorni è stabilito che la sospensione perda di efficacia ma potrà essere confermata per altri 60 giorni, su istanza di parte e qualora ricorrano i presupposti di cui ai primi due comma della norma citata. Il set di interventi si completa con il riconoscimento per i giudizi di merito dell’applicazione dell’unica udienza, con l’affidamento al Presidente di sezione o del Tri­bunale di funzioni di vigilanza sul rispetto dei termini e ob­bligo di relazionare trimestralmente rispettivamente al Pre­si­den­te del tribunale o della Corte d’appello per le determinazioni di competenza. Analoga draconiana disciplina viene formulata per il recupero degli aiuti censurati, di fronte ai giudici tributari, attraverso l’aggiunta di un articolo 47 bis alla discipina del processo tributario chiedendosi pari condizioni rispetto al giudice civile per l’eventuale atto sospensivo, oltre a una riduzione dei termini per l’appello e priorità assoluta per le udienze di trattazione.
Dall’esame della legge risulta manifesta la volontà del legislatore di segnare un punto fermo nel processo di conformità dell’ordinamento interno al diritto comunitario, ed allo scopo è per­fettamente funzionale il meccanismo di cui all’art. 10 della legge 11/2005 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione Europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari) che autorizza il Governo ad emanare, in via d’urgenza, disposizioni legislative nel caso in cui, il termine per il recepimento di atti emanati dalle istituzioni dell’Unione europea scadesse prima dell’entrata in vigore della legge comunitaria.
Quest’ultima mancata previsione era peraltro proprio una delle lacune che la legge 11/05 voleva colmare, sostituendo così la precedente legge La Pergola (l. 86/89) in cui erano assenti strumenti che consentissero l’esercizio della funzione legislativa con carattere d’urgenza. Vi era, inoltre, l’esigenza di fornire una regolamentazione unitaria ad una materia così delicata, esigenza resasi ancora più impellente dalle modifiche introdotte al titolo V della Costituzione integralmente riformulato a seguito della Legge costituzionale n. 3 del 2001.
L’inadeguatezza del sistema normativo nazionale era stata pe­raltro messa in crisi non molto tempo prima dalla nota pronuncia Lucchini (sentenza 18 luglio 2007 causa c-119/05) che ha avuto un effetto dirompente su quella che, sino ad allora, era una certezza indiscussa e cioè il principio di autorità di cosa giudicata riconosciuto dall’art. 2909 c.c. Per l’interesse delle conclusioni a cui perviene la Corte di giustizia, è opportuno descrivere i fatti che avevano dato luogo alla controversia. Lo Stato italiano aveva iniziato una procedura per la concessione di aiuti di Stato alla Lucchini s.p.a., notificando il progetto di aiuto alla Commissione europea ma prevedendo che, nonostante l’obbligo comunitario di standstill, una parte dell’aiuto fosse erogato in attesa della decisione della Com­missione, che decideva però per la incompatibilità dell’aiuto stesso. La decisone della “custode del Trattato” non veniva impugnata e la Lucchini preferiva intraprendere un giudizio civile contro lo Stato italiano per il versamento delle ulteriori somme dinanzi al Tribunale di Roma che, con decisione confermata in Corte d’appello, le dava ragione.
La Commissione per suo conto emetteva la ovvia decisione di recupero chiedendo alla Repubblica italiana l’immediato recupero dell’aiuto illegittimamente concesso, ma la Lucchini impugnava il decreto del Ministro dell’Industria di recupero, dinanzi al T.a.r. Lazio che accoglieva il ricorso della S.p.a. annullando il decreto. In sede di impugnazione, il Consiglio di Stato decideva di sospendere il giudizio rivolgendosi alla Corte di giustizia per domandarle pregiudizialmente se il passaggio in giudicato della sentenza del giudice civile potesse precludere ogni ulteriore richiesta di ripetizione o se nel caso de quo, la prevalenza del diritto comunitario (e della concorrenza) potesse portare ad una sostanziale disapplicazione da parte del giudice amministrativo dell’art. 2909 c.c. I giudici lussemburghesi non hanno dubbi nello statuire che “il diritto comunitario osta al­l’ap­­pli­cazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 c.c., volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune sia stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva”.
Seppure i primi commentatori si siano affrettati a stigmatizzare l’eccezionalità del caso, nel quale il giudice nazionale non ave­va solo mal applicato il diritto comunitario, ma si era pronunciato su una materia nella quale non aveva competenza vertendosi in una ipotesi di attribuzione esclusiva della Com­mis­sione, appare tangibile la portata innovativa rispetto al proprio pre­­cedente orientamento. Nella sentenza kobler (sent. 30 set­tem­bre 2003 causa C-224/01, punto 38) si sostiene come “oc­cor­re rilevare che l’importanza del principio dell’autorità della co­sa definitivamente giudicata non può essere contestata”. In­fat­ti, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giu­ridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è im­por­tante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive do­po l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini, non possano più essere rimesse in discussione.
La Corte quindi lasciava impregiudicata la sola possibilità della richiesta di risarcimento danni a carico dello Stato per la violazione grave operata dal proprio apparato giudiziario. Non dissimilmente nella pronuncia Kuhne & Heitz (sent. 13 gennaio 2004 - causa C-453/00), il giudice nazionale subordinava l’ob­bligo per l’organo amministrativo interessato, al riesame della propria decisione in eventuale contrasto con il diritto comunitario (in applicazione del principio di cooperazione consacrato nell’art 10 Ce) solo ove il detto organo disponesse, secondo il peculiare diritto nazionale, del potere di ritornare sulla decisione e facendo così salvo il principio della intangibilità del giudicato interno.
Recente era peraltro il ricordo del case law Kapferer (causa C-234/04 del 16 marzo 2006) secondo cui il principio di cooperazione non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne allo scopo di riesaminare e annullare una decisione giudiziaria passata in giudicato qualora risulti che questa violi il diritto comunitario. Si sosteneva che “al fine di garantire la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi, non possano più essere rimesse in discussione”.
La pressoché granitica impostazione pretoria, portata prima in rassegna, è a parere dello scrivente, figlia della prima e più famosa sentenza Eco Swiss che, sin dal 1999 (sent. giugno 1999 causa C-126/97), non limitandosi solo ad affermare che il diritto comunitario non impone ad un giudice di disapplicare le norme processuali interne attribuenti il valore di cosa giudicata ad una decisione comunitariamente illegittima, ha il pregio di porre i pilastri su cui costruire la successiva evoluzione della giurisprudenza in tutti i settori del diritto della concorrenza.
Nella fattispecie, portata all’attenzione della Curia, la Be­net­ton risultata soccombente in un lodo arbitrale contro la società Eco Swiss, chiedeva al più alto grado della giurisdizione olandese, la Hoge Raad che fosse dichiarato nullo il lodo arbitrale a lei sfavorevole, poiché emesso in una vertenza che vedeva le parti contrapposte in un giudizio avente ad oggetto pratiche concordate tra imprese che violavano la disciplina antitrust (artt. 81 e 82 Tce) impedendo o falsando il gioco della concorrenza.
La Hoge Raad nel rinvio pregiudiziale chiedeva in sostanza se dovesse accogliere tale domanda di nullità ove, in base al proprio diritto interno, la nullità poteva essere dichiarata solo se l’elusione dei divieti sanciti dal diritto della concorrenza rappresentassero una ipotesi di contrarietà all’ordine pubblico. Per dare una risposta a tale domanda, la Corte fa riferimento all’art. 3 che contiene l’elenco delle principali attività che la Comunità deve implementare per raggiungere gli obiettivi indicati nell’articolo 2. L’art. 3, 1), infatti, stabilisce che ai fini enunciati all’art. 2, l’azione della Comunità comporta un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno.
Da tutto questo, la Corte riconosce nell’art. 81 una disposizione fondamentale indispensabile per l’adempimento dei compiti affidati alla Comunità, sicché la norma ha carattere di ordine pubblico inderogabile la cui violazione è affetta da insanabile nullità. Si consolida l’idea di base che poi influenzerà la giurisprudenza ed anche la normazione successiva per cui solo l’esistenza di una concorrenza efficace (workable competition) è il presupposto di un mercato interno efficiente a protezione delle piccole e medie imprese, e non meno in favore del consumatore e della coesione sociale più in generale.
Non sfugge la riflessione su come con il nuovo Trattato di Lisbona sia stato deciso che la libera concorrenza non rientrerà più tra gli obiettivi dell’Unione europea essendo invece uno «strumento fondamentale» per il raggiungimento di tali obiettivi. Tuttavia, un protocollo aggiuntivo allegato al Trattato stesso, indica che la libera concorrenza è da ritenersi elemento costitutivo del mercato interno.
In conclusione, sarà estremamente interessante verificare l’im­patto delle nuove norme nazionali in una materia sempre at­tuale quale quella degli aiuti di Stato. Solo a titolo esemplificativo, la Commissione europea ha recentemente ordinato al­l’Ita­lia (IP/08/578 del 16 aprile 2008) di recuperare 2,75 mi­lio­ni di euro di aiuto illegale concesso ad un noto fabbricante di poltrone ubicato in Basilicata ed è attuale la richiesta allo Stato italiano (IP/08/953 del 17 giugno 2008) di fornire precisazioni sulle agevolazioni fiscali a vantaggio delle cooperative di consumo nei settori dei servizi bancari e della distribuzione che potrebbero costituire aiuti incompatibili con il Trattato.
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