LIBERTA' DI INGRESSO E SOGGIORNO PER IL CONIUGE EXTRACOMUNITARIO DEL CITTADINO DELL'UNIONE
Archivio > Anno 2008 > Dicembre 2008
di Giuseppe MORGESE
Con
una recente sentenza (25 luglio 2008, causa C-127/08, Metock e al. c.
Minister for Justice, Equality and Law Reform, non ancora pubblicata),
la Corte di giustizia delle Comunità europee ha opportunamente precisato
il contenuto della direttiva n. 2004/38/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini
dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare
liberamente nel territorio degli Stati membri (in GUUE L 158, 30 aprile
2004, p. 77 ss., di sèguito indicata come la «direttiva» oppure la
«direttiva 2004/38») con riferimento ai diritti del familiare
extracomunitario del cittadino dell’Unione europea. In particolare,
la Corte ha stabilito la non conformità col diritto comunitario di una
normativa nazionale che subordina il godimento dei diritti di
ingresso e soggiorno dei cittadini di Paesi terzi coniugati con
cittadini di Paesi membri a limitazioni ulteriori rispetto a quelle
stabilite nella direttiva in questione.
La sentenza in commento trae origine da quattro rinvii pregiudiziali sollevati nell’àmbito di procedimenti di sindacato giurisdizionale su atti della pubblica amministrazione innanzi all’High Court irlandese. Tali procedimenti nazionali erano diretti a ottenere, in particolare, altrettante ordinanze di annullamento dei provvedimenti con cui il Minister for Justice, Equality and Law Reform irlandese – sulla base degli artt. 3, nn. 1 e 2, dello European Communities (Free Movement of Persons) (n. 2) Regulations 2006 (in sèguito, il «decreto») che recepisce in Irlanda la citata direttiva 2004/38/CE – aveva negato il permesso di soggiorno ai ricorrenti, tutti cittadini extracomunitari coniugati con cittadini dell’Unione residenti in Irlanda.
Tre dei quattro provvedimenti amministrativi impugnati si basavano sull’art. 3, n. 2, del decreto del 2006, norma che introduce il requisito del “previo soggiorno legale in uno degli Stati membri” affinché un cittadino extracomunitario già legato da un vincolo di parentela con un cittadino dell’Unione possa essere considerato “familiare” di quest’ultimo al fine di godere in Irlanda del diritto di ingresso e soggiorno garantito dalla normativa di attuazione della direttiva 2004/38/CE. Il quarto provvedimento, invece, negava al ricorrente il permesso di soggiorno sulla base del precedente art. 3, n. 1, che in sostanza richiede il soggiorno legale in Irlanda del familiare extracomunitario di un cittadino dell’Unione in data precedente al suo matrimonio con quest’ultimo.
La questione sottoposta alla Corte di giustizia, quindi, riguardava l’asserita contrarietà dell’art. 3, nn. 1 e 2, del decreto irlandese del 2006 alla direttiva 2004/38/CE. I ricorrenti, tutti cittadini di Paesi terzi coniugati con cittadini dell’Unione, avevano infatti sostenuto di essere titolari di un diritto, derivante dal mero vincolo di coniugio con cittadini comunitari, di circolare e soggiornare in uno Stato membro diverso da quello di cittadinanza di questi ultimi. Essi inoltre avevano sottolineato come tale diritto fosse soggetto alle sole limitazioni previste all’interno della direttiva per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, nonché in caso di abuso del diritto. Le autorità irlandesi avevano invece sottolineato come la direttiva non fosse di ostacolo alla previsione di ulteriori requisiti a livello nazionale per il godimento dei diritti di ingresso e soggiorno, come appunto quello del previo soggiorno legale in un altro Paese membro dell’Unione (a prescindere dalla data del matrimonio) o nello stesso territorio irlandese (in epoca precedente a tale data).
Per quanto riguarda il requisito del “previo soggiorno legale in un altro Stato membro” di cui all’art. 3, n. 2, del decreto irlandese del 2006 (oggetto di tre dei quattro rinvii pregiudiziali), la Corte di giustizia ha ricordato come la nozione di “familiare” ai sensi dell’art. 2, n. 2, direttiva 2004/ 38/CE non tracci alcuna distinzione a seconda che esso abbia già soggiornato legalmente o meno in uno Stato membro diverso da quello ospitante.
Altre previsioni della direttiva, quali quelle che concedono ai cittadini extracomunitari familiari di cittadini comunitari il godimento dei diritti di ingresso, di soggiorno sino a tre mesi e di soggiorno oltre i tre mesi, non tengono infatti in alcun conto le circostanze relative al luogo o ai presupposti del loro soggiorno in un momento precedente all’arrivo nello Stato membro ospitante. Il godimento del diritto di ingresso da parte dei familiari extracomunitari è soggetto (ex art. 5, par. 2, della direttiva) alla presentazione del solo visto d’ingresso e non anche di una valida carta di soggiorno. L’esercizio del loro diritto di soggiorno fino a tre mesi, invece, è soggetto al possesso del solo passaporto in corso di validità (art. 6, par. 2, della direttiva). Infine, il godimento del diritto di soggiorno oltre i tre mesi richiede solo l’adempimento dell’obbligo da parte dei familiari extracomunitari di richiedere alle competenti autorità dello Stato membro ospitante una “carta di soggiorno di familiare di un cittadino dell’Unione”, per il cui rilascio non è tuttavia prevista la facoltà in capo alle autorità nazionali di richiedere documenti diversi da quelli tassativamente indicati nell’art. 10, par. 2, della direttiva, quali appunto quelli che comprovino un eventuale previo soggiorno legale in altro Stato dell’Unione.
Più in generale, la Corte di giustizia ha ribadito il generale favor nei confronti di una piena libertà di circolazione dei cittadini dell’Unione e della conseguente abolizione degli ostacoli posti dagli Stati membri. Tale favor muove dal presupposto per cui la piena libertà dei cittadini comunitari di spostarsi in un altro Stato membro sarebbe sicuramente compromessa qualora la loro vita familiare non fosse adeguatamente tutelata. Se infatti gli Stati membri potessero discrezionalmente concedere o negare l’ingresso e il soggiorno nel loro territorio ai cittadini extracomunitari familiari di cittadini dell’Unione, in particolare stabilendo il requisito del previo soggiorno legale in un altro Stato membro, ciò avrebbe come risultato quello di impedire o rendere quanto meno più difficile la circolazione di questi ultimi.
Inoltre, un simile requisito avrebbe l’effetto di rendere disomogenea l’effettiva libertà di circolazione sul territorio comunitario in virtù delle differenti normative nazionali in materia di immigrazione, dato che alcuni Stati autorizzano e altri negano l’ingresso e soggiorno dei familiari extracomunitari di cittadini dell’Unione. Per di più, in presenza di tale requisito si potrebbe giungere al “singolare” risultato per cui gli Stati membri sarebbero tenuti ad autorizzare il ricongiungimento dei coniugi extracomunitari di cittadini ugualmente extracomunitari (in base alla direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare, in GUUE L 251, 3 ottobre 2003) ma potrebbero negarlo per i coniugi extracomunitari di cittadini dell’Unione.
In base a queste considerazioni, la Corte di giustizia nella sentenza in commento ha pertanto interpretato la direttiva 2004/ 38/CE nel senso che essa impedisce a uno Stato membro di richiedere ai familiari extracomunitari di cittadini di altri Stati membri, ai fini del godimento dei loro diritti di ingresso e soggiorno nel proprio territorio, la presentazione di documenti che attestino il previo soggiorno legale in altro Stato dell’Unione europea. Da questo punto di vista, dunque, è stato superato l’orientamento restrittivo espresso nella giurisprudenza Akrich (sentenza del 23 settembre 2003, causa C-109/01, in Racc., p. I-9607 ss.), pronuncia su cui si erano in parte basate le autorità irlandesi per giustificare i provvedimenti impugnati. Nella sentenza Akrich, infatti, la Corte aveva sostenuto che il familiare extracomunitario del cittadino dell’Unione, per poter godere di diritti previsti nell’abrogato art. 10 del regolamento n. 1612/68 (in GUCE L 257, 19 ottobre 1968), dovesse soggiornare legalmente in uno Stato membro prima di potersi spostare in un altro Stato membro.
Nel censurare il decreto del 2006, la Corte di giustizia ha anche replicato alle obiezioni del governo irlandese e degli altri governi intervenuti nella procedura pregiudiziale, i quali avevano paventato il rischio che il divieto di prevedere ulteriori requisiti per l’ingresso e il soggiorno dei cittadini extracomunitari fosse idoneo a pregiudicare il loro potere di controllo dell’immigrazione alle frontiere esterne. Il giudice comunitario ha tuttavia in primo luogo ricordato che i diritti contenuti nella direttiva 2004/38/CE non si estendono indiscriminatamente a qualunque soggetto non avente la cittadinanza di uno dei Paesi membri dell’Unione, ma solo a coloro che rientrano nella definizione di “familiari” stabilita nella direttiva stessa. Ciò perché la direttiva in questione attribuisce a questi ultimi una serie di diritti non autonomi ma “derivati” da quelli dei cittadini comunitari, che sono appunto i beneficiari ultimi della direttiva. In secondo luogo, gli Stati mantengono pur sempre la facoltà di imporre limitazioni al godimento dei diritti di ingresso e soggiorno dei predetti familiari extracomunitari per i consueti motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, nonché per abuso del diritto come nel caso dei matrimoni fittizi (circostanza peraltro ritenuta insussistente da parte del giudice nazionale nei casi di specie).
Con riferimento al differente requisito del “previo soggiorno legale nel territorio dello Stato membro ospitante in data precedente al matrimonio”, la Corte ha parimenti escluso che quest’ultima limitazione fosse compatibile con il principio del pie-no godimento dei diritti di ingresso e soggiorno dei familiari extracomunitari di cittadini dell’Unione. Il quarto provvedimento amministrativo impugnato, infatti, aveva negato la carta di soggiorno al ricorrente extracomunitario che risiedeva illegalmente sul territorio irlandese prima di contrarre matrimonio con una cittadina comunitaria e dunque non aveva bloccato l’iter per la sua espulsione dall’Irlanda. Come si è ricordato in precedenza, l’art. 3, n. 1, del decreto irlandese del 2006 subordina il godimento dei diritti derivanti dalla direttiva da parte dei familiari extracomunitari alla condizione che questi ultimi risiedano legalmente nel territorio nazionale alla data del matrimonio.
La Corte ha invece ricordato come siano compresi nella nozione ampia di “familiari” non solo i coniugi extracomunitari di cittadini dell’Unione, che in quanto tali possono scegliere di accompagnare oppure di raggiungere in un secondo momento i cittadini dell’Unione, ma anche coloro che sono giunti in qualunque maniera (anche illegalmente) nello Stato membro ospite prima della data del matrimonio – e cioè, prima di diventare “familiari” nel senso precisato dalla direttiva – ma che, in ragione del matrimonio, acquistano il diritto “derivato” di ingresso e di soggiorno: tali cittadini extracomunitari, pertanto, non possono più essere espulsi per il loro precedente ingresso in via illegale.
Agli Stati membri rimane tuttavia la possibilità di sanzionare la precedente condizione di illegalità del familiare extracomunitario alla luce dei predetti limiti di ordine pubblico, pubblica sicurezza, sanità pubblica e abuso del diritto, in particolare adottando nei suoi confronti sanzioni, quali l’irrogazione di ammende, che però non siano lesive della piena libertà di circolazione e di soggiorno derivante proprio dal vincolo familiare.
La sentenza in commento trae origine da quattro rinvii pregiudiziali sollevati nell’àmbito di procedimenti di sindacato giurisdizionale su atti della pubblica amministrazione innanzi all’High Court irlandese. Tali procedimenti nazionali erano diretti a ottenere, in particolare, altrettante ordinanze di annullamento dei provvedimenti con cui il Minister for Justice, Equality and Law Reform irlandese – sulla base degli artt. 3, nn. 1 e 2, dello European Communities (Free Movement of Persons) (n. 2) Regulations 2006 (in sèguito, il «decreto») che recepisce in Irlanda la citata direttiva 2004/38/CE – aveva negato il permesso di soggiorno ai ricorrenti, tutti cittadini extracomunitari coniugati con cittadini dell’Unione residenti in Irlanda.
Tre dei quattro provvedimenti amministrativi impugnati si basavano sull’art. 3, n. 2, del decreto del 2006, norma che introduce il requisito del “previo soggiorno legale in uno degli Stati membri” affinché un cittadino extracomunitario già legato da un vincolo di parentela con un cittadino dell’Unione possa essere considerato “familiare” di quest’ultimo al fine di godere in Irlanda del diritto di ingresso e soggiorno garantito dalla normativa di attuazione della direttiva 2004/38/CE. Il quarto provvedimento, invece, negava al ricorrente il permesso di soggiorno sulla base del precedente art. 3, n. 1, che in sostanza richiede il soggiorno legale in Irlanda del familiare extracomunitario di un cittadino dell’Unione in data precedente al suo matrimonio con quest’ultimo.
La questione sottoposta alla Corte di giustizia, quindi, riguardava l’asserita contrarietà dell’art. 3, nn. 1 e 2, del decreto irlandese del 2006 alla direttiva 2004/38/CE. I ricorrenti, tutti cittadini di Paesi terzi coniugati con cittadini dell’Unione, avevano infatti sostenuto di essere titolari di un diritto, derivante dal mero vincolo di coniugio con cittadini comunitari, di circolare e soggiornare in uno Stato membro diverso da quello di cittadinanza di questi ultimi. Essi inoltre avevano sottolineato come tale diritto fosse soggetto alle sole limitazioni previste all’interno della direttiva per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, nonché in caso di abuso del diritto. Le autorità irlandesi avevano invece sottolineato come la direttiva non fosse di ostacolo alla previsione di ulteriori requisiti a livello nazionale per il godimento dei diritti di ingresso e soggiorno, come appunto quello del previo soggiorno legale in un altro Paese membro dell’Unione (a prescindere dalla data del matrimonio) o nello stesso territorio irlandese (in epoca precedente a tale data).
Per quanto riguarda il requisito del “previo soggiorno legale in un altro Stato membro” di cui all’art. 3, n. 2, del decreto irlandese del 2006 (oggetto di tre dei quattro rinvii pregiudiziali), la Corte di giustizia ha ricordato come la nozione di “familiare” ai sensi dell’art. 2, n. 2, direttiva 2004/ 38/CE non tracci alcuna distinzione a seconda che esso abbia già soggiornato legalmente o meno in uno Stato membro diverso da quello ospitante.
Altre previsioni della direttiva, quali quelle che concedono ai cittadini extracomunitari familiari di cittadini comunitari il godimento dei diritti di ingresso, di soggiorno sino a tre mesi e di soggiorno oltre i tre mesi, non tengono infatti in alcun conto le circostanze relative al luogo o ai presupposti del loro soggiorno in un momento precedente all’arrivo nello Stato membro ospitante. Il godimento del diritto di ingresso da parte dei familiari extracomunitari è soggetto (ex art. 5, par. 2, della direttiva) alla presentazione del solo visto d’ingresso e non anche di una valida carta di soggiorno. L’esercizio del loro diritto di soggiorno fino a tre mesi, invece, è soggetto al possesso del solo passaporto in corso di validità (art. 6, par. 2, della direttiva). Infine, il godimento del diritto di soggiorno oltre i tre mesi richiede solo l’adempimento dell’obbligo da parte dei familiari extracomunitari di richiedere alle competenti autorità dello Stato membro ospitante una “carta di soggiorno di familiare di un cittadino dell’Unione”, per il cui rilascio non è tuttavia prevista la facoltà in capo alle autorità nazionali di richiedere documenti diversi da quelli tassativamente indicati nell’art. 10, par. 2, della direttiva, quali appunto quelli che comprovino un eventuale previo soggiorno legale in altro Stato dell’Unione.
Più in generale, la Corte di giustizia ha ribadito il generale favor nei confronti di una piena libertà di circolazione dei cittadini dell’Unione e della conseguente abolizione degli ostacoli posti dagli Stati membri. Tale favor muove dal presupposto per cui la piena libertà dei cittadini comunitari di spostarsi in un altro Stato membro sarebbe sicuramente compromessa qualora la loro vita familiare non fosse adeguatamente tutelata. Se infatti gli Stati membri potessero discrezionalmente concedere o negare l’ingresso e il soggiorno nel loro territorio ai cittadini extracomunitari familiari di cittadini dell’Unione, in particolare stabilendo il requisito del previo soggiorno legale in un altro Stato membro, ciò avrebbe come risultato quello di impedire o rendere quanto meno più difficile la circolazione di questi ultimi.
Inoltre, un simile requisito avrebbe l’effetto di rendere disomogenea l’effettiva libertà di circolazione sul territorio comunitario in virtù delle differenti normative nazionali in materia di immigrazione, dato che alcuni Stati autorizzano e altri negano l’ingresso e soggiorno dei familiari extracomunitari di cittadini dell’Unione. Per di più, in presenza di tale requisito si potrebbe giungere al “singolare” risultato per cui gli Stati membri sarebbero tenuti ad autorizzare il ricongiungimento dei coniugi extracomunitari di cittadini ugualmente extracomunitari (in base alla direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare, in GUUE L 251, 3 ottobre 2003) ma potrebbero negarlo per i coniugi extracomunitari di cittadini dell’Unione.
In base a queste considerazioni, la Corte di giustizia nella sentenza in commento ha pertanto interpretato la direttiva 2004/ 38/CE nel senso che essa impedisce a uno Stato membro di richiedere ai familiari extracomunitari di cittadini di altri Stati membri, ai fini del godimento dei loro diritti di ingresso e soggiorno nel proprio territorio, la presentazione di documenti che attestino il previo soggiorno legale in altro Stato dell’Unione europea. Da questo punto di vista, dunque, è stato superato l’orientamento restrittivo espresso nella giurisprudenza Akrich (sentenza del 23 settembre 2003, causa C-109/01, in Racc., p. I-9607 ss.), pronuncia su cui si erano in parte basate le autorità irlandesi per giustificare i provvedimenti impugnati. Nella sentenza Akrich, infatti, la Corte aveva sostenuto che il familiare extracomunitario del cittadino dell’Unione, per poter godere di diritti previsti nell’abrogato art. 10 del regolamento n. 1612/68 (in GUCE L 257, 19 ottobre 1968), dovesse soggiornare legalmente in uno Stato membro prima di potersi spostare in un altro Stato membro.
Nel censurare il decreto del 2006, la Corte di giustizia ha anche replicato alle obiezioni del governo irlandese e degli altri governi intervenuti nella procedura pregiudiziale, i quali avevano paventato il rischio che il divieto di prevedere ulteriori requisiti per l’ingresso e il soggiorno dei cittadini extracomunitari fosse idoneo a pregiudicare il loro potere di controllo dell’immigrazione alle frontiere esterne. Il giudice comunitario ha tuttavia in primo luogo ricordato che i diritti contenuti nella direttiva 2004/38/CE non si estendono indiscriminatamente a qualunque soggetto non avente la cittadinanza di uno dei Paesi membri dell’Unione, ma solo a coloro che rientrano nella definizione di “familiari” stabilita nella direttiva stessa. Ciò perché la direttiva in questione attribuisce a questi ultimi una serie di diritti non autonomi ma “derivati” da quelli dei cittadini comunitari, che sono appunto i beneficiari ultimi della direttiva. In secondo luogo, gli Stati mantengono pur sempre la facoltà di imporre limitazioni al godimento dei diritti di ingresso e soggiorno dei predetti familiari extracomunitari per i consueti motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, nonché per abuso del diritto come nel caso dei matrimoni fittizi (circostanza peraltro ritenuta insussistente da parte del giudice nazionale nei casi di specie).
Con riferimento al differente requisito del “previo soggiorno legale nel territorio dello Stato membro ospitante in data precedente al matrimonio”, la Corte ha parimenti escluso che quest’ultima limitazione fosse compatibile con il principio del pie-no godimento dei diritti di ingresso e soggiorno dei familiari extracomunitari di cittadini dell’Unione. Il quarto provvedimento amministrativo impugnato, infatti, aveva negato la carta di soggiorno al ricorrente extracomunitario che risiedeva illegalmente sul territorio irlandese prima di contrarre matrimonio con una cittadina comunitaria e dunque non aveva bloccato l’iter per la sua espulsione dall’Irlanda. Come si è ricordato in precedenza, l’art. 3, n. 1, del decreto irlandese del 2006 subordina il godimento dei diritti derivanti dalla direttiva da parte dei familiari extracomunitari alla condizione che questi ultimi risiedano legalmente nel territorio nazionale alla data del matrimonio.
La Corte ha invece ricordato come siano compresi nella nozione ampia di “familiari” non solo i coniugi extracomunitari di cittadini dell’Unione, che in quanto tali possono scegliere di accompagnare oppure di raggiungere in un secondo momento i cittadini dell’Unione, ma anche coloro che sono giunti in qualunque maniera (anche illegalmente) nello Stato membro ospite prima della data del matrimonio – e cioè, prima di diventare “familiari” nel senso precisato dalla direttiva – ma che, in ragione del matrimonio, acquistano il diritto “derivato” di ingresso e di soggiorno: tali cittadini extracomunitari, pertanto, non possono più essere espulsi per il loro precedente ingresso in via illegale.
Agli Stati membri rimane tuttavia la possibilità di sanzionare la precedente condizione di illegalità del familiare extracomunitario alla luce dei predetti limiti di ordine pubblico, pubblica sicurezza, sanità pubblica e abuso del diritto, in particolare adottando nei suoi confronti sanzioni, quali l’irrogazione di ammende, che però non siano lesive della piena libertà di circolazione e di soggiorno derivante proprio dal vincolo familiare.