MARCHI REGIONALI DI QUALITA' E TUTELA DEL PRINCIPIO DELLA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE MERCI
Archivio > Anno 2004 > Ottobre 2004
Con
sentenza del 17 giugno 2004, causa C-255/03, la Corte di Giustizia
delle Comunità Europee ha dichiarato l’incompatibilità dei marchi
regionali con il principio della libera circolazione delle merci,
previsto dall’art. 28 CE.
La causa è nata a seguito del ricorso proposto dalla Commissione delle Comunità europee, ai sensi dell’art. 226 CE, nei confronti del Regno del Belgio, in riferimento ad una legge concernente l’attribuzione del «marchio di qualità vallone». Detto marchio è inteso dalla legge in questione come «il marchio collettivo determinato dal governo regionale vallone, che attesta che un prodotto fabbricato o trasformato in Vallonia possiede un insieme distinto di qualità e caratteristiche specifiche preliminarmente fissate e che stabilisce un livello di qualità». Il governo regionale determina, sulla base di un disciplinare dettagliato, i requisiti che uno o più prodotti devono avere per poter essere fabbricati, trasformati, posti in vendita o venduti con il marchio di qualità vallone. A giudizio della Commissione, la legge in questione è contraria all’art. 28 CE, in quanto presupposti per l’accesso ad una denominazione di qualità dovrebbero essere le caratteristiche intrinseche del prodotto, non la sua origine geografica. In tal caso, infatti, la concessione del marchio di qualità si risolverebbe in una misura di effetto equivalente alla restrizione all’importazione.
La recentissima decisione non fa che confermare i precedenti giurisprudenziali in materia di marchi territoriali. Già qualche anno prima, infatti, la Corte di Giustizia aveva dichiarato contraria al principio della libera circolazione delle merci la concessione, da parte dei governi tedesco e francese, di un marchio di qualità riservato a prodotti fabbricati in un’area geografica determinata; si trattava del marchio di qualità della campagna tedesca e della riserva della denominazione “montagna” ai soli prodotti fabbricati in determinate regioni francesi. (vd. sentenze 5 novembre 2002, causa C-325/00 e 7 maggio 1997, cause riunite C-321/94 e C-324/94).
Il marchio regionale è un segno distintivo, più precisamente un marchio collettivo, e trova, quindi, la sua disciplina comunitaria nella direttiva 89/104/CEE.
In Italia, il d.lgs. n.480/92, attuativo della direttiva citata, apportante modifiche alla legge marchi, regolamenta l’utilizzo di un marchio costituito esclusivamente da un nome geografico. L’art.18, comma 1°, b), legge marchi, così come sostituito, vieta la registrazione come marchi d’impresa di quei segni che possono servire a designare la provenienza geografica di un prodotto. La ratio di una tale disposizione sembra indicare che i nomi geografici aventi un significato descrittivo implicante la qualità di un prodotto, non possono essere validamente registrati come marchi individuali, ma solo quali marchi collettivi o quali denominazioni di origine. Infatti il marchio collettivo ha la funzione di garantire la qualità o la natura di determinati prodotti, permettendo di individuare caratteristiche qualitative o di produzione predeterminate nel disciplinare.
L’utilizzo di marchi collettivi regionali può, però, a parere della Corte di Giustizia, contrastare con l’art. 28 CE. Com’è noto, la norma si prefigge l’eliminazione delle barriere alla libera circolazione delle merci, in modo da ottenere un mercato unico. L’utilizzo di marchi collettivi territoriali si pone, quindi, in conflitto con gli obiettivi comunitari di armonizzazione, favorendo, in ultima istanza, i prodotti locali. E la giurisprudenza della Corte di Giustizia sembrerebbe confermare l’incompatibilità dei marchi territoriali collettivi con il principio di libera circolazione delle merci.
In realtà, secondo l’interpretazione della Commissione, è possibile individuare delle maglie di operatività di tali marchi, utilizzando alcuni criteri forniti dalla stessa Corte nel caso Eggers (sentenza 12 ottobre 1978, causa C-13/78). Nella causa in questione, la Corte osservò che se è vero che gli Stati membri sono “competenti a stabilire norme di qualità dei prodotti messi in commercio sul loro territorio e possono subordinare l’uso di denominazioni di qualità al rispetto di queste norme”, tuttavia l’utilizzo di tali denominazioni non può essere legato alla localizzazione nel territorio nazionale del processo di produzione dei prodotti in questione, nel rispetto dell’art. 28 CE. Il diritto a fruire di tali denominazioni di qualità può essere subordinato “unicamente al possesso delle caratteristiche obiettive intrinseche che danno ai prodotti la qualità richiesta dalla legge”.
Le Regioni sembrano essersi quasi tutte adeguate all’indirizzo interpretativo fornito dalla Corte di Giustizia. La legge della Regione Toscana del 15 aprile 1999, n.25, disciplinante la valorizzazione dei prodotti agricoli ed alimentari ottenuti con tecniche di produzione integrata, concede in uso alle imprese agricole che si impegnano a conformarsi a determinati disciplinari di produzione, un marchio collettivo di qualità registrato dalla Regione. I disciplinari di produzione fanno esclusivo riferimento alle “tecniche ed ai processi produttivi necessari ad ottimizzare le caratteristiche del prodotto” (art.4, comma 1), senza subordinare, quindi, la concessione del marchio all’origine territoriale del prodotto o allo svolgimento sul territorio di alcune fasi della produzione.
Analogo contenuto normativo è previsto dalla legge della Regione Emilia-Romagna del 28 ottobre 1999, n.28.
In questo modo, il marchio regionale diventa uno strumento che certifica l’utilizzo di una determinata tecnica di produzione, utilizzabile da qualunque produttore europeo, nel rispetto del principio della libera circolazione delle merci, e non si confonde, quindi, con gli strumenti di valorizzazione della qualità del territorio, quali le DOP e le IGP.
La causa è nata a seguito del ricorso proposto dalla Commissione delle Comunità europee, ai sensi dell’art. 226 CE, nei confronti del Regno del Belgio, in riferimento ad una legge concernente l’attribuzione del «marchio di qualità vallone». Detto marchio è inteso dalla legge in questione come «il marchio collettivo determinato dal governo regionale vallone, che attesta che un prodotto fabbricato o trasformato in Vallonia possiede un insieme distinto di qualità e caratteristiche specifiche preliminarmente fissate e che stabilisce un livello di qualità». Il governo regionale determina, sulla base di un disciplinare dettagliato, i requisiti che uno o più prodotti devono avere per poter essere fabbricati, trasformati, posti in vendita o venduti con il marchio di qualità vallone. A giudizio della Commissione, la legge in questione è contraria all’art. 28 CE, in quanto presupposti per l’accesso ad una denominazione di qualità dovrebbero essere le caratteristiche intrinseche del prodotto, non la sua origine geografica. In tal caso, infatti, la concessione del marchio di qualità si risolverebbe in una misura di effetto equivalente alla restrizione all’importazione.
La recentissima decisione non fa che confermare i precedenti giurisprudenziali in materia di marchi territoriali. Già qualche anno prima, infatti, la Corte di Giustizia aveva dichiarato contraria al principio della libera circolazione delle merci la concessione, da parte dei governi tedesco e francese, di un marchio di qualità riservato a prodotti fabbricati in un’area geografica determinata; si trattava del marchio di qualità della campagna tedesca e della riserva della denominazione “montagna” ai soli prodotti fabbricati in determinate regioni francesi. (vd. sentenze 5 novembre 2002, causa C-325/00 e 7 maggio 1997, cause riunite C-321/94 e C-324/94).
Il marchio regionale è un segno distintivo, più precisamente un marchio collettivo, e trova, quindi, la sua disciplina comunitaria nella direttiva 89/104/CEE.
In Italia, il d.lgs. n.480/92, attuativo della direttiva citata, apportante modifiche alla legge marchi, regolamenta l’utilizzo di un marchio costituito esclusivamente da un nome geografico. L’art.18, comma 1°, b), legge marchi, così come sostituito, vieta la registrazione come marchi d’impresa di quei segni che possono servire a designare la provenienza geografica di un prodotto. La ratio di una tale disposizione sembra indicare che i nomi geografici aventi un significato descrittivo implicante la qualità di un prodotto, non possono essere validamente registrati come marchi individuali, ma solo quali marchi collettivi o quali denominazioni di origine. Infatti il marchio collettivo ha la funzione di garantire la qualità o la natura di determinati prodotti, permettendo di individuare caratteristiche qualitative o di produzione predeterminate nel disciplinare.
L’utilizzo di marchi collettivi regionali può, però, a parere della Corte di Giustizia, contrastare con l’art. 28 CE. Com’è noto, la norma si prefigge l’eliminazione delle barriere alla libera circolazione delle merci, in modo da ottenere un mercato unico. L’utilizzo di marchi collettivi territoriali si pone, quindi, in conflitto con gli obiettivi comunitari di armonizzazione, favorendo, in ultima istanza, i prodotti locali. E la giurisprudenza della Corte di Giustizia sembrerebbe confermare l’incompatibilità dei marchi territoriali collettivi con il principio di libera circolazione delle merci.
In realtà, secondo l’interpretazione della Commissione, è possibile individuare delle maglie di operatività di tali marchi, utilizzando alcuni criteri forniti dalla stessa Corte nel caso Eggers (sentenza 12 ottobre 1978, causa C-13/78). Nella causa in questione, la Corte osservò che se è vero che gli Stati membri sono “competenti a stabilire norme di qualità dei prodotti messi in commercio sul loro territorio e possono subordinare l’uso di denominazioni di qualità al rispetto di queste norme”, tuttavia l’utilizzo di tali denominazioni non può essere legato alla localizzazione nel territorio nazionale del processo di produzione dei prodotti in questione, nel rispetto dell’art. 28 CE. Il diritto a fruire di tali denominazioni di qualità può essere subordinato “unicamente al possesso delle caratteristiche obiettive intrinseche che danno ai prodotti la qualità richiesta dalla legge”.
Le Regioni sembrano essersi quasi tutte adeguate all’indirizzo interpretativo fornito dalla Corte di Giustizia. La legge della Regione Toscana del 15 aprile 1999, n.25, disciplinante la valorizzazione dei prodotti agricoli ed alimentari ottenuti con tecniche di produzione integrata, concede in uso alle imprese agricole che si impegnano a conformarsi a determinati disciplinari di produzione, un marchio collettivo di qualità registrato dalla Regione. I disciplinari di produzione fanno esclusivo riferimento alle “tecniche ed ai processi produttivi necessari ad ottimizzare le caratteristiche del prodotto” (art.4, comma 1), senza subordinare, quindi, la concessione del marchio all’origine territoriale del prodotto o allo svolgimento sul territorio di alcune fasi della produzione.
Analogo contenuto normativo è previsto dalla legge della Regione Emilia-Romagna del 28 ottobre 1999, n.28.
In questo modo, il marchio regionale diventa uno strumento che certifica l’utilizzo di una determinata tecnica di produzione, utilizzabile da qualunque produttore europeo, nel rispetto del principio della libera circolazione delle merci, e non si confonde, quindi, con gli strumenti di valorizzazione della qualità del territorio, quali le DOP e le IGP.