LA NOZIONE DI CONSUMATORE NELLA DISCIPLINA EUROPEA SULLE CLAUSOLE ABUSIVE
Archivio > Anno 2002 > Maggio 2002
di Maria Stefania SCARDIGNO
La
questione concernente i limiti di applicazione soggettiva della
disciplina generale dei contratti dei consumatori, dettata dagli artt.
1469-bis e ss. cod. civ., che hanno recepito la direttiva 93/13/CEE, ha
fin dalla sua introduzione impegnato dottrina e giurisprudenza italiana
nel delicato problema interpretativo su cosa intendere per “persona
fisica che agisca per scopi estranei alla propria attività
professionale”.
I punti di crisi della nozione di consumatore sono stati per un verso rappresentati dall’invocata estensione di tale status ad enti non personificati, soprattutto se perseguenti scopi non lucrativi (G.d.P. L’Aquila, 3.11.1997, in Giust. civ., 1998, I, 234 con nota di Gatt), e per altro verso dal difficile punto di confine fra atti funzionali a scopi imprenditoriali ed atti destinati al consumo individuale.
In più occasioni, infatti, la giurisprudenza, facendo leva sulla nozione di “scopo professionale”, ha interpretato tale nozione ravvisando la linea di confine tra “professionista” e “consumatore” nella circostanza che la stipulazione del contratto da parte di quest’ultimo era, o no, atto “tipico” della professione eventualmente esercitata. Si è ritenuto, allora, di poter applicare analogicamente i criteri contenuti negli artt. 1469-bis e ss. c.c. ogni qualvolta il contraente-consumatore o professionista si trovasse a contrattare fuori dal suo specifico campo di attività e quindi in una situazione di inferiorità rispetto alla controparte (vedi: Trib. Terni 13.7.1999, in Danno e resp., 2000, 862 con nota di Palmieri, che ha considerato consumatore il soggetto che conclude un contratto in vista dello svolgimento di una futura attività professionale; Trib. Ivrea, 5.10.1999, in Danno e resp., 2000, 861, con nota di Palmieri, che ha ritenuto applicabile la novella sulle clausole abusive alla persona fisica che acquista beni allo scopo di avviare una piccola attività commerciale collaterale a quella lavorativa abituale; ma soprattutto Trib. Roma, 20.10.1999, in Foro it., 2000, I, 645 con nota di Lener, che ha considerato consumatore uno scultore che aveva stipulato un contratto di trasporto per far pervenire ad un concorso una sua opera).
Un’interpretazione così ampliativa dello status di consumatore, tuttavia, si discosta sensibilmente dal tracciato della direttiva 93/13/CEE, che costituisce parametro interpretativo di sicuro rilievo per l’interprete chiamato ad applicare la normativa di recepimento.
Seguendo la ratio e le finalità da essa perseguite, infatti, la Corte di Giustizia, con sentenza del 22.11.2001 (cause C-541/99 e 542/99), ha definitivamente affermato che non può considerarsi consumatore un ente o una società anche se operi per scopi estranei, e non funzionali, all’attività imprenditoriale o professionale tipica esercitata, e che tale concetto debba esclusivamente riferirsi alla persona fisica che agisca per esigenze di consumo, ossia per scopi personali o familiari.
La decisione della Corte è stata occasionata da tre questioni pregiudiziali sottoposte alla sua attenzione proprio da un giudice di un comune italiano, un Giudice di Pace di Viadana, relative all’interpretazione dell’art. 2, lett. b), della direttiva del Consiglio 5 aprile 1993, 93/13/CEE, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.
Tali questioni, sollevate nell’ambito di due controversie, rispettivamente tra la Cape s.n.c. e l’Idealservice s.r.l. e l’Idealservice MN RE s.a.s. e l’OMAI s.r.l., avevano ad oggetto l’esecuzione di contratti tipo contenenti una clausola attributiva di competenza al giudice a quo, clausola contestata, sulla base della citata direttiva, sia dalla Cape che dall’OMAI.
In particolare, l’Omai e la Cape avevano acquistato dall’Idealservice MN RE s.a.s. e dall’Idealservice s.r.l. delle macchine per la distribuzione automatica di bevande da installare nei loro locali ad uso esclusivo dei loro dipendenti.
Nell’ambito dell’esecuzione di detti contratti, la Cape e l’OMAI, ritenendo applicabile al contratto tipo di fornitura da esse stipulato gli artt. 1469 bis e ss. del codice civile italiano, con i quali era stata recepita la direttiva 93/13/CEE, proponevano opposizione ad un decreto ingiuntivo promosso dalle società Idealservice, sostenendo che la clausola attributiva di competenza contenuta nel contratto, che eleggeva quale foro esclusivo competente quello di Viadana, sede legale delle società Idealservice, fosse una clausola vessatoria, ai sensi dell’art. 1469 bis, n. 19, c.c. e quindi inefficace, in forza del successivo art. 1469 quinquies. Secondo le due società, l’inefficacia di tale clausola nei loro confronti derivava dalla considerazione che con la stipulazione dei contratti di fornitura di cui trattasi esse non avevano agito per scopi attinenti e funzionali alla loro attività imprenditoriale tipica, ma esclusivamente allo scopo di mettere a disposizione dei propri dipendenti determinati prodotti, ossia delle bevande. Esse, facendo astrazione dal fatto che l’art. 1469 bis c.c., nel definire la figura del consumatore, fa in primo luogo riferimento alla persona fisica e poi alla nozione di agire per fini non rientranti nell’ambito del sua attività professionale o imprenditoriale, ritenevano che la presenza di tale ultima condizione permettesse anche alle società di invocare la tutela concessa dalla direttiva alle persone fisiche.
Viceversa, la Corte di Giustizia ha precisato che, dalla lettura dell’art. 2 della direttiva, emerge una scelta chiara, laddove è da considerarsi consumatore “qualsiasi persona fisica che, nei contratti oggetto della presente direttiva, agisce per fini che non rientrano nell’ambito della sua attività professionale”, a differenza di quanto si stabilisce nel definire la nozione di professionista, “persona fisica o giuridica che, nei contratti oggetto della presente direttiva, agisce nel quadro della sua attività professionale, sia essa pubblica o privata”.
La scelta di campo operata dal legislatore comunitario con la direttiva 93/13 è quella di intervenire solo per eliminare la differenza di potere contrattuale esistente tra la persona fisica che agisce per esigenze di consumo e chi (persona fisica o giuridica) agisce nell’esercizio della propria attività professionale, considerando tale differenza congenita a queste relazioni contrattuali ed idonea a creare squilibrio nei diritti e negli obblighi derivanti dal contratto in capo a ciascuna delle parti.
In particolare, il sistema di protezione garantito dalla direttiva parte dal principio di carattere generale per cui, nei contratti conclusi con un professionista, il consumatore va considerato parte debole in quanto persona sprovvista di conoscenze specifiche sull’operazione economico-giuridica che compie, operazione che rappresenta per esso solo il mezzo per soddisfare un bisogno personale o familiare e sul cui contenuto non può incidere in alcun modo, dovendo necessariamente aderire alle condizioni contrattuali predisposte dal professionista (CGCE, sentenza 27 giugno 2000, cause riunite da C-240/98 a C-244/98, in Raccolta, 2000, I, 4941, punto 25).
L’ambito di applicazione della disciplina risulta, allora, essere notevolmente circoscritto a causa della necessaria presenza di un consumatore finale, quale parte del contratto, che agisce per scopi non professionali, escludendo la sua operatività in favore di soggetti diversi dalla persona fisica, l’unica che possa agire per soddisfare bisogni personali o familiari.
Non è pertanto lo scopo non professionale dell’atto a determinare la condizione di consumatore, e quindi l’assoggettamento alla tutela di cui alla direttiva, bensì la qualifica aprioristica di consumatore dell’autore di esso quale persona fisica. Tale sbarramento imposto dal legislatore comunitario alle persone diverse da quelle fisiche non appare essere superabile, in via interpretativa, in quanto rappresenta un limite insito nel sistema normativo, così come strutturato e voluto dal legislatore comunitario.
La normativa in questione va quindi considerata una disciplina speciale, derogativa del principio di libertà negoziale, e, in quanto tale, non estendibile ad altre categorie diverse dalle persone fisiche.
L’interpretazione della nozione di consumatore unicamente come persona fisica, nonché il divieto di interpretazione estensiva di una normativa come quella di cui alla direttiva 93/13/CEE, si rinviene anche dalla giurisprudenza comunitaria relativa all’interpretazione dell’art. 13 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale. Nell’interpretazione di tale articolo, sulla nozione di consumatore, la Corte ha inteso il consumatore nel senso di “consumatore finale privato” (CGCE, sentenza 19 gennaio 1993, causa C-89/91, Shearson Lehman Hutton, in Raccolta, 1993, I, 139, punto 22) o come riguardante un “individuo” (CGCE, sentenza 3 luglio 1997, causa C-269/95, Benincasa, in Raccolta, 1997, I, 3767, punto 17), il che implica necessariamente che anche qui ci si debba riferire ad una persona fisica.
La pertinenza di tale giurisprudenza nel comprendere la soluzione della controversia in oggetto sembra sostanziarsi nel fatto che l’obiettivo degli artt. 13 e ss. della citata Convenzione e quello della direttiva 93/13 siano in sostanza identici, ossia giustificare una disciplina speciale che miri alla protezione del consumatore, persona fisica che pone in essere un atto di consumo, in quanto parte contraente considerata economicamente più debole e meno esperta, sul piano giuridico, della controparte professionale (CGCE, sentenza 3 luglio 1997, causa C-269/95, Benincasa, cit., punto 18).
I punti di crisi della nozione di consumatore sono stati per un verso rappresentati dall’invocata estensione di tale status ad enti non personificati, soprattutto se perseguenti scopi non lucrativi (G.d.P. L’Aquila, 3.11.1997, in Giust. civ., 1998, I, 234 con nota di Gatt), e per altro verso dal difficile punto di confine fra atti funzionali a scopi imprenditoriali ed atti destinati al consumo individuale.
In più occasioni, infatti, la giurisprudenza, facendo leva sulla nozione di “scopo professionale”, ha interpretato tale nozione ravvisando la linea di confine tra “professionista” e “consumatore” nella circostanza che la stipulazione del contratto da parte di quest’ultimo era, o no, atto “tipico” della professione eventualmente esercitata. Si è ritenuto, allora, di poter applicare analogicamente i criteri contenuti negli artt. 1469-bis e ss. c.c. ogni qualvolta il contraente-consumatore o professionista si trovasse a contrattare fuori dal suo specifico campo di attività e quindi in una situazione di inferiorità rispetto alla controparte (vedi: Trib. Terni 13.7.1999, in Danno e resp., 2000, 862 con nota di Palmieri, che ha considerato consumatore il soggetto che conclude un contratto in vista dello svolgimento di una futura attività professionale; Trib. Ivrea, 5.10.1999, in Danno e resp., 2000, 861, con nota di Palmieri, che ha ritenuto applicabile la novella sulle clausole abusive alla persona fisica che acquista beni allo scopo di avviare una piccola attività commerciale collaterale a quella lavorativa abituale; ma soprattutto Trib. Roma, 20.10.1999, in Foro it., 2000, I, 645 con nota di Lener, che ha considerato consumatore uno scultore che aveva stipulato un contratto di trasporto per far pervenire ad un concorso una sua opera).
Un’interpretazione così ampliativa dello status di consumatore, tuttavia, si discosta sensibilmente dal tracciato della direttiva 93/13/CEE, che costituisce parametro interpretativo di sicuro rilievo per l’interprete chiamato ad applicare la normativa di recepimento.
Seguendo la ratio e le finalità da essa perseguite, infatti, la Corte di Giustizia, con sentenza del 22.11.2001 (cause C-541/99 e 542/99), ha definitivamente affermato che non può considerarsi consumatore un ente o una società anche se operi per scopi estranei, e non funzionali, all’attività imprenditoriale o professionale tipica esercitata, e che tale concetto debba esclusivamente riferirsi alla persona fisica che agisca per esigenze di consumo, ossia per scopi personali o familiari.
La decisione della Corte è stata occasionata da tre questioni pregiudiziali sottoposte alla sua attenzione proprio da un giudice di un comune italiano, un Giudice di Pace di Viadana, relative all’interpretazione dell’art. 2, lett. b), della direttiva del Consiglio 5 aprile 1993, 93/13/CEE, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.
Tali questioni, sollevate nell’ambito di due controversie, rispettivamente tra la Cape s.n.c. e l’Idealservice s.r.l. e l’Idealservice MN RE s.a.s. e l’OMAI s.r.l., avevano ad oggetto l’esecuzione di contratti tipo contenenti una clausola attributiva di competenza al giudice a quo, clausola contestata, sulla base della citata direttiva, sia dalla Cape che dall’OMAI.
In particolare, l’Omai e la Cape avevano acquistato dall’Idealservice MN RE s.a.s. e dall’Idealservice s.r.l. delle macchine per la distribuzione automatica di bevande da installare nei loro locali ad uso esclusivo dei loro dipendenti.
Nell’ambito dell’esecuzione di detti contratti, la Cape e l’OMAI, ritenendo applicabile al contratto tipo di fornitura da esse stipulato gli artt. 1469 bis e ss. del codice civile italiano, con i quali era stata recepita la direttiva 93/13/CEE, proponevano opposizione ad un decreto ingiuntivo promosso dalle società Idealservice, sostenendo che la clausola attributiva di competenza contenuta nel contratto, che eleggeva quale foro esclusivo competente quello di Viadana, sede legale delle società Idealservice, fosse una clausola vessatoria, ai sensi dell’art. 1469 bis, n. 19, c.c. e quindi inefficace, in forza del successivo art. 1469 quinquies. Secondo le due società, l’inefficacia di tale clausola nei loro confronti derivava dalla considerazione che con la stipulazione dei contratti di fornitura di cui trattasi esse non avevano agito per scopi attinenti e funzionali alla loro attività imprenditoriale tipica, ma esclusivamente allo scopo di mettere a disposizione dei propri dipendenti determinati prodotti, ossia delle bevande. Esse, facendo astrazione dal fatto che l’art. 1469 bis c.c., nel definire la figura del consumatore, fa in primo luogo riferimento alla persona fisica e poi alla nozione di agire per fini non rientranti nell’ambito del sua attività professionale o imprenditoriale, ritenevano che la presenza di tale ultima condizione permettesse anche alle società di invocare la tutela concessa dalla direttiva alle persone fisiche.
Viceversa, la Corte di Giustizia ha precisato che, dalla lettura dell’art. 2 della direttiva, emerge una scelta chiara, laddove è da considerarsi consumatore “qualsiasi persona fisica che, nei contratti oggetto della presente direttiva, agisce per fini che non rientrano nell’ambito della sua attività professionale”, a differenza di quanto si stabilisce nel definire la nozione di professionista, “persona fisica o giuridica che, nei contratti oggetto della presente direttiva, agisce nel quadro della sua attività professionale, sia essa pubblica o privata”.
La scelta di campo operata dal legislatore comunitario con la direttiva 93/13 è quella di intervenire solo per eliminare la differenza di potere contrattuale esistente tra la persona fisica che agisce per esigenze di consumo e chi (persona fisica o giuridica) agisce nell’esercizio della propria attività professionale, considerando tale differenza congenita a queste relazioni contrattuali ed idonea a creare squilibrio nei diritti e negli obblighi derivanti dal contratto in capo a ciascuna delle parti.
In particolare, il sistema di protezione garantito dalla direttiva parte dal principio di carattere generale per cui, nei contratti conclusi con un professionista, il consumatore va considerato parte debole in quanto persona sprovvista di conoscenze specifiche sull’operazione economico-giuridica che compie, operazione che rappresenta per esso solo il mezzo per soddisfare un bisogno personale o familiare e sul cui contenuto non può incidere in alcun modo, dovendo necessariamente aderire alle condizioni contrattuali predisposte dal professionista (CGCE, sentenza 27 giugno 2000, cause riunite da C-240/98 a C-244/98, in Raccolta, 2000, I, 4941, punto 25).
L’ambito di applicazione della disciplina risulta, allora, essere notevolmente circoscritto a causa della necessaria presenza di un consumatore finale, quale parte del contratto, che agisce per scopi non professionali, escludendo la sua operatività in favore di soggetti diversi dalla persona fisica, l’unica che possa agire per soddisfare bisogni personali o familiari.
Non è pertanto lo scopo non professionale dell’atto a determinare la condizione di consumatore, e quindi l’assoggettamento alla tutela di cui alla direttiva, bensì la qualifica aprioristica di consumatore dell’autore di esso quale persona fisica. Tale sbarramento imposto dal legislatore comunitario alle persone diverse da quelle fisiche non appare essere superabile, in via interpretativa, in quanto rappresenta un limite insito nel sistema normativo, così come strutturato e voluto dal legislatore comunitario.
La normativa in questione va quindi considerata una disciplina speciale, derogativa del principio di libertà negoziale, e, in quanto tale, non estendibile ad altre categorie diverse dalle persone fisiche.
L’interpretazione della nozione di consumatore unicamente come persona fisica, nonché il divieto di interpretazione estensiva di una normativa come quella di cui alla direttiva 93/13/CEE, si rinviene anche dalla giurisprudenza comunitaria relativa all’interpretazione dell’art. 13 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale. Nell’interpretazione di tale articolo, sulla nozione di consumatore, la Corte ha inteso il consumatore nel senso di “consumatore finale privato” (CGCE, sentenza 19 gennaio 1993, causa C-89/91, Shearson Lehman Hutton, in Raccolta, 1993, I, 139, punto 22) o come riguardante un “individuo” (CGCE, sentenza 3 luglio 1997, causa C-269/95, Benincasa, in Raccolta, 1997, I, 3767, punto 17), il che implica necessariamente che anche qui ci si debba riferire ad una persona fisica.
La pertinenza di tale giurisprudenza nel comprendere la soluzione della controversia in oggetto sembra sostanziarsi nel fatto che l’obiettivo degli artt. 13 e ss. della citata Convenzione e quello della direttiva 93/13 siano in sostanza identici, ossia giustificare una disciplina speciale che miri alla protezione del consumatore, persona fisica che pone in essere un atto di consumo, in quanto parte contraente considerata economicamente più debole e meno esperta, sul piano giuridico, della controparte professionale (CGCE, sentenza 3 luglio 1997, causa C-269/95, Benincasa, cit., punto 18).