LA CORTE METTE UN FRENO ALLE DISCRIMINAZIONI SESSUALI NEL SETTORE DELLE ASSICURAZIONI - Sud in Europa

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LA CORTE METTE UN FRENO ALLE DISCRIMINAZIONI SESSUALI NEL SETTORE DELLE ASSICURAZIONI

Archivio > Anno 2011 > Maggio 2011
di Donatella DEL VESCOVO    
Il settore dei premi assicurativi per la copertura dei veicoli è un campo vasto ed articolato con problematiche da sempre all’attenzione sia dei cittadini che delle istituzioni in Italia ma anche in Europa. La maggior parte delle Compagnie, an­che nel nostro Paese, diversifica i premi delle polizze in ba­se al sesso, considerandolo uno dei fattori di rischio più ri­levan­te soprattutto per il segmento della rc auto. In so­stan­za a pa­rità di età, agli uo­mini ven­gono at­tribuiti oneri assicurativi di gran lunga più elevati rispetto alle donne. La giu­stificazione di tale discrepanza è dovuta all’opinione che, statistiche al­la mano, i rap­presentanti del sesso ma­schile causano molti più incidenti rispetto alle loro coetanee.
I giudici del Lussemburgo con la sentenza nella causa C-236/09 del primo marzo scorso, intentata per ottenere il ri­conoscimento della parità tra uomo e donna nell’applicazione dei premi assicurativi, han­no stabilito che tale discrepanza è discriminatoria, poiché si pone in contrasto con il principio di uguaglianza più volte af­fermato dagli stessi giudici.
A partire da questa sentenza quindi gli assicuratori non po­tranno più giustificare la dif­ferenza di trattamento uo­mo-donna con le loro statistiche. Questo perché, come si leg­ge nella sentenza, prendere in considerazione il sesso dell’assicurato come un fattore di rischio nei contratti costituisce una discriminazione.
La Corte di giustizia in que­sta causa è chiamata per la prima volta ad esaminare la di­rettiva n. 2004/113/CE del 13 dicembre 2004 sull’uguaglianza di trattamento tra uomini e donne in materia di accesso ai beni e ai servizi. Questa norma, in linea di principio, vieta di prendere in considerazione il criterio del ses­so per calcolare i premi e le prestazioni dei contratti di assicurazione conclusi dopo il 21 dicembre 2007 (termine ultimo per la trasposizione della direttiva).
Tuttavia l’art. 5, 2° comma, della direttiva 2004/113 ha ri­co­no­sciuto agli Stati membri la possibilità, nel calcolo dei pre­mi e delle prestazioni assicurative, di permettere differenziazioni correlate al sesso qualora ciò costituisca un fattore di rischio determinante e tale circostanza sia supportata da pertinenti e ac­curati dati attuariali e statistici. È necessario però garantire che i dati attuariali e statistici su cui si basano questi calcoli sia­no af­fidabili, regolarmente aggiornati e a disposizione del pubblico.
Numerosi Stati membri han­no fatto uso di tale facoltà derogatoria in riferimento ad uno o più tipi di contratti assicurativi. Anche in Belgio, come in Ita­lia, la maggior parte delle compagnie assicurative diversifica i premi dei contraenti in base al sesso. Tali eccezioni erano previste tuttavia senza limiti di du­rata, rappresentando pertanto una facoltà di scelta del singolo Stato membro.
La Associazione belga dei consumatori Test-Achats ASBL e due privati cittadini, hanno adito la loro Corte costituzionale con un ricorso volto all’annullamento della legge belga che ha trasposto la direttiva.
La Test-Achats, da più di 15 anni si adopera per impedire che le compagnie di assicurazione possano legare l’entità dei premi a fattori che il consumatore non può controllare co­me l’età, il sesso e lo stato di sa­­lute che prescindono quindi dal comportamento indivi­duale.
Nell’ambito di tale ricorso il giudice belga ha chiesto alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 234, 3° comma, TCE (divenuto art. 267, 3° com­ma, TFUE) di esaminare la va­lidità della deroga prevista dalla direttiva in rapporto a norme di diritto superiore e, più precisamente, se tale deroga è compatibile con il principio della parità trattamento e non discriminazione sancito dal diritto dell’Unione.
La Corte analizza la questione sottolineando come in una co­stante giurisprudenza sia di importanza fondamentale il principio della parità di trattamento tra uomini e donne. Importanza che viene inoltre evidenziata dalla normativa europea negli articoli 2 e 3, n. 3, 2° comma, del Nuovo Trattato sull’Unione europea (NTUE) nonché negli articoli 8 e 10 del TFUE, e ancora negli articoli 21 e 23, 1° comma, della Carta dei diritti fondamentali.
Con la direttiva 2004/113, e segnatamente con l’art. 5 di quest’ultima, l’Unione ha quindi deliberatamente scelto di adottare norme antidiscriminazione nel settore delle assicurazioni. Tali norme pertanto debbono essere «opportune» ai fini della lotta contro le discriminazioni e non possono condurre a loro volta a discriminazioni. Proprio per questo, secondo la Corte la giustificazione di una discriminazione diretta sulla base del sesso è ipotizzabile soltanto entro limiti ristretti e deve essere accuratamente motivata. Al legislatore dell’Unione non è assolutamente consentito permettere a proprio piacimento deroghe al principio di parità di trattamento e svuotare così di significato il di­vieto di discriminazioni.
La Corte inoltre sottolinea che l’art. 5, 2° comma, della direttiva 2004/113 mira sicuramente a tener conto delle particolarità del settore assicurativo. Le imprese di assicurazioni infatti, of­frono servizi dei quali, al momento della conclusione del contratto, non può dirsi con certezza se, quando e in quale misura verranno goduti dall’assicurato.
Al fine di rendere tale rischio calcolabile risulta imprescindibile fare ricorso a dati prognostici nell’ambito del calcolo attuariale di premi e prestazioni. Ad esempio, l’attenzione verrà posta, nel caso delle assicurazioni sulla vita e delle assicurazioni di rendita, sulla prevedibile aspettativa di vita dell’assicurato; nel caso delle assicurazioni sulla responsabilità civile per la guida di veicoli, sulla probabilità che l’assicurato causi un incidente stradale; e nel caso dell’assicurazione privata contro i ri­schi di malattia, sulla probabilità che l’assicurato richieda determinate prestazioni mediche.
La norma controversa pertanto non prende in considerazione evidenti differenze biologiche tra assicurati. Essa riguarda piuttosto delle ipotesi nelle quali sia eventualmente possibile sotto il profilo statistico attribuire un rischio assicurativo differente a seconda del sesso dell’assicurato. Invero, secondo una costante giurisprudenza, nell’ambito di applicazione dei divieti di discriminazione sanciti dalle norme dell’Unione l’esistenza di una discriminazione indiretta può risultare da dati statistici. Una di­sparità di trattamento a carattere diretto fondata sul sesso è ammessa – prescindendo dal caso di specifiche misure dirette a favorire gli appartenenti ad una categoria di persone svantaggiate – soltanto qualora sia possibile constatare con certezza l’e­sistenza di rilevanti differenze tra uomini e donne, le quali esigano un simile trattamento diversificato. Tuttavia, è proprio questa certezza a mancare nel caso in questione proprio perché i premi e le prestazioni assicurative vengono calcolati in modo diverso per uomini e donne esclusivamente, o comunque in misura determinante, sulla base di dati statistici. In tal caso si pre­suppone aprioristicamente che la diversità tra uomini e don­ne quanto alla loro rispettiva aspettativa di vita, alla loro rispettiva disponibilità ad assumere rischi alla guida di autoveicoli ed alla loro rispettiva inclinazione a fare ricorso a prestazioni mediche sia riconducibile in misura determinante al loro sesso.
Non è possibile quindi garantire che eventuali differenze nei premi e nelle prestazioni assicurative per assicurati di sesso ma­schile e femminile siano basate esclusivamente su criteri obiettivi, che nulla hanno a che fare con una discriminazione fon­­data sul sesso.
In ogni caso, eventuali considerazioni di natura meramente finanziaria – come ad esempio il pericolo, prospettato da alcune delle parti intervenute nel procedimento, di un aumento dei premi per una parte degli assicurati o addirittura per tutti gli assicurati – non costituiscono un motivo oggettivo atto a giustificare una disparità di trattamento fondata sul sesso.
Alla luce di tali circostanze, la Corte ammette che l’ap­pli­cazione di fattori attuariali basati sul sesso non è compatibile con il principio della parità di trattamento tra uomini e donne e di conseguenza dichiara l’invalidità dell’art. 5, n. 2, della di­ret­tiva 2004/113 a motivo della violazione del divieto di di­scri­mi­nazione fondato sul sesso, sancito a livello di diritti fondamentali.
Ne scaturisce la constatazione da parte della Corte che la norma contenuta nella direttiva 2004/113 sarebbe incompatibile con i principi fondamentali dell’ UE qualora fosse interpretata come  indicante soltanto la “possibilità” e non la “certezza” del­la cancellazione dell’opzione derogatoria al principio di parità di trattamento, con la conseguente possibilità, almeno a livello teorico, che questa deroga si perpetuasse indefinitamente. Inol­tre dato che nella direttiva manca una norma in merito alla durata di applicazione di tali differenze, gli Stati membri che hanno fatto uso della facoltà suddetta sono autorizzati a consentire agli assicuratori di applicare tale trattamento ineguale senza limiti di tempo. In tali circostanze esiste, a giudizio della Corte, un ri­schio che la deroga alla parità di trattamento tra donne e uomini prevista dalla direttiva sia permessa dal diritto dell’Unione a tempo indefinito.
Pertanto, una disposizione che consenta agli Stati membri in­teressati di mantenere senza limiti di tempo una deroga alla regola dei premi e delle prestazioni unisex è contraria alla realizzazione dell’obiettivo della parità di trattamento tra donne e uomini e deve essere considerata invalida alla scadenza di un adeguato periodo transitorio.
Secondo la Corte, quindi, l’unica maniera per rendere compatibile la norma della direttiva con i principi fondamentali del­l’U­nione europea è quella di interpretarla nel senso che l’art. 5, 2° comma della direttiva 2004/113, viene a cessare i propri ef­fetti a partire dal 21 dicembre 2012, non potendosi consentire oltre quella data che fattori attuariali legati al sesso possano in­fluire sui contratti e prestazioni assicurative.
Del resto, la Corte con una decisione in tal senso, si pone sul­la stessa strada della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America la quale, già più di trent’anni fa, ha statuito, in riferimento alle assicurazioni di rendita, che il Civil Rights Act del 1964 vieta che gli assicurati siano trattati diversamente a seconda del loro sesso. 
Questa sentenza quindi potrebbe cambiare il futuro dei premi assicurativi anche in Italia, dalla RC auto, alle polizze vita, fino al ramo danni, con un impatto notevole in tutto il settore. Tutto questo per arginare il rischio che la deroga alla parità di trattamento tra donne e uomini prevista dalla direttiva sia permessa dal diritto dell’Unione a tempo indefinito.
È evidente come la sentenza della Corte di giustizia, richiamandosi ai principi generali e fondamentali di uguaglianza e di non discriminazione,  può esplicare i suoi effetti in Italia, anche al di là di quanto correlato alle discriminazioni di genere, in un contesto ove alcune compagnie assicurative continuano ad ap­plicare fattori attuariali legati alla nazionalità nella definizione tariffaria dei contratti assicurativi nel settore RC auto. Diverse volte ad esempio è stato denunciato il fatto che alcune compagnie assicurative applicano tariffe differenziate e più elevate per i cittadini romeni (ma non solo) residenti in Italia per la sottoscrizione delle polizze assicurative, rispetto alle tariffe applicate ai cittadini italiani, sostenendo che i primi avrebbero una propensione maggiore al danno da incidente automobilistico riconducibile in misura determinante alla loro stessa nazionalità. È del tutto evidente l’inconciliabilità di tale prassi con i principi fondamentali di uguaglianza e di divieto di discriminazioni fondate sulla nazionalità tra i cittadini di Paesi membri dell’Unione europea di cui ad es. all’art. 18 TFUE oltreché alle già richiamate disposizioni della Carta europea dei diritti fondamentali.
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