LA CORTE DI GIUSTIZIA SI PRONUNCIA SUL PRINCIPIO "CHI INQUINA PAGA"
Archivio > Anno 2010 > Dicembre 2010
di Ilaria OTTAVIANO (Assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi Roma Tre)
1.
Con una importante sentenza del 9 marzo 2010 (causa C-378/08, non
ancora pubblicata in Raccolta), la Corte di giustizia dell’Unione
europea, riunita in Grande Sezione, ha precisato alcuni aspetti del
principio “chi inquina paga”, pronunciandosi per la prima volta in
merito ai requisiti necessari ad identificare il responsabile di un
danno ambientale (per un primo commento alla sentenza v. G. Taddei,
Responsabilità, nesso causale e giusto procedimento (nota a Corte di
Giustizia 9 marzo 2010 in C 378/08 e CC 379-380/08), in Ambiente &
Sviluppo, 2010, n. 5 p. 437 ss.).
Il principio in esame esprime un criterio cardine della politica ambientale dell’Unione. Esso è disciplinato, come noto, nell’articolo 191 TFUE (ex art. 174, secondo paragrafo, TCE), che nel secondo paragrafo stabilisce espressamente che “la politica dell’Unione in materia ambientale […] è fondata sul principio della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio ‘chi inquina paga’”. Esso si fonda sull’imputazione del costo sociale del danno a colui che lo causa e mira a salvaguardare la salute umana e le risorse ambientali. Il principio, che ha trovato esplicita base giuridica nell’Atto Unico Europeo (art. 130R TCE), pur risultando già richiamato in raccomandazioni del Consiglio sin dalla metà degli anni settanta, fa entrare nel processo economico di produzione i costi di prevenzione e riparazione di danni potenziali od effettivi provocati all’ambiente. Dopo un’iniziale preferenza verso la creazione strumenti preventivi (si pensi alle norme comunitarie che prevedono limiti di emissione o di sversamento), il legislatore comunitario ha applicato il principio del pollueur-payeur anche a strumenti di tipo riparatorio.
Il primo esempio di strumento di questo secondo tipo è costituito dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004, 2004/35/CE, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale (GUUE L 143, p. 56 ss.), oggetto della pronuncia della Corte qui analizzata. Essa si pone l’obiettivo di dettare norme uniformi in tema di responsabilità ambientale. Primariamente la direttiva definisce la nozione di danno ambientale: costituisce danno “un mutamento negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa naturale, che può prodursi direttamente o indirettamente” (art. 2, 2° comma), ed è ambientale quello perpetrato contro le specie e gli habitat naturali protetti, le acque ed i terreni (art. 2, 1° comma). L’oggetto della direttiva è dunque limitato al danno ambientale e non al danno patrimoniale conseguente (con ciò innovando profondamente rispetto ai tradizionali modelli di tutela ambientale, incentrati sulla responsabilità civile, che risarciscono danni alla proprietà privata, alle perdite economiche e alla salute). Al fine di armonizzare il regime di responsabilità per danni ambientali, la direttiva ha fissato un duplice regime: da un lato, ha previsto l’attribuzione di responsabilità oggettiva per danni arrecati o potenzialmente arrecabili ad opera di determinate attività professionali ritenute pericolose, esplicitamente elencate nell’Allegato III alla direttiva (art. 3, lett. a). Dall’altro lato essa trova applicazione anche con riferimento alle altre attività professionali, non espressamente considerate pericolose dall’allegato III, questa volta però limitatamente ai casi in cui l’operatore abbia agito con dolo o con colpa e solo per i danni arrecati o le minacce di danno a specie ed habitat naturali protetti (art. 3, lett. b). L’art. 4 della direttiva esclude poi l’applicabilità della stessa ai casi di inquinamento a carattere diffuso, salvo che “sia possibile accertare un nesso causale tra il danno e l’attività di singoli operatori” (art. 4, 5° comma).
Ai sensi dell’art. 19 della direttiva il termine per il suo recepimento negli Stati membri è stato fissato al 30 aprile 2007. Come indicato nel recente Rapporto della Commissione sulla direttiva 2004/35 (COM(2010) 581 final, 12 october 2010, Report from the Commission to the Council, the European Parliament, the European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions Under Article 14(2) of Directive 2004/35/CE on the Environmental Liability with regard to the Prevention and Remedying of Environmental Damage), solo quattro Stati hanno però adattato la propria legislazione nazionale alla direttiva entro il termine previsto. Fra questi l’Italia, con il d. lgs. 152/2006, Norme in materia ambientale, (GURI, del 14 aprile 2006, n. 88), modificato con d.l. 235/09 (GURI del 25 settembre 2009, n. 223) a seguito dell’apertura di una procedura d’infrazione (n. 2007/4679, del 31 gennaio 2008) per errata trasposizione della direttiva. La Commissione europea in particolare rimproverava all’Italia di non aver recepito il criterio della responsabilità oggettiva per i danni causati dalle attività professionali pericolose, ma di aver mantenuto per l’imputazione di responsabilità i criteri del dolo e della colpa. Occorre tuttavia precisare che in relazione al profilo della responsabilità oggettiva la difformità fra direttiva e normativa italiana persiste tuttora nonostante la modifica legislativa.
2. Il TAR Sicilia con decisione 5 giugno 2008 ha sollevato davanti al giudice dell’Unione una serie di questioni pregiudiziali, nell’ambito di controversie fra alcune società operanti nel settore degli idrocarburi e della petrolchimica (Raffinerie Mediterranee SpA, Polimeri Europa SpA e Syndial SpA) e diversi enti nazionali e territoriali. Le cause principali vertono sull’imputazione dei costi di riparazione di danni ambientali subiti in particolare dalla Rada di Augusta, in cui si trovano ed operano le suddette società. Nell’ordinanza di rinvio il giudice a quo ha chiesto alla Corte di giustizia di precisare alcuni aspetti del principio “chi inquina paga” ai sensi dell’art. 174 del TCE e della direttiva 2004/35/CE che ne costituisce applicazione. Egli ha chiesto se esso osti ad una normativa nazionale che consente alla Pubblica Amministrazione di imporre ad alcuni imprenditori privati – per il solo fatto che esercitino attualmente la propria attività in una zona da lungo tempo contaminata, o limitrofa a quella storicamente contaminata – misure di riparazione dei danni ambientali, senza una previa indagine sull’origine dell’inquinamento, e senza aver accertato il nesso di causalità tra i danni arrecati e gli operatori, né il dolo o la colpa di questi ultimi.
3. Dopo aver dichiarato la ricevibilità della domanda sulla base della consolidata giurisprudenza Rheinmühlen, che riconosce ad un giudice di grado inferiore la possibilità di proporre ricorso pregiudiziale alla Corte di giustizia, se tema che la valutazione in diritto formulata dall’istanza superiore possa condurlo ad emettere un giudizio contrario al diritto dell’Unione (sentenza del 16 gennaio 1974, causa 166/73, Rheinmühlen-Düsseldorf, in Raccolta, p. 33 ss., punto 4), la Corte ha risposto alle questioni interpretative sottoposte al suo esame.
In via preliminare, la Corte ha ritenuto necessario risolvere un problema di applicazione temporale della direttiva. Infatti, ad avviso del governo italiano e della Commissione, e del governo olandese intervenuto, la direttiva non sarebbe applicabile ratione temporis al caso di specie, in virtù del fatto che l’inquinamento della Rada di Augusta si perpetrava già da svariati decenni, molto precedenti alla scadenza del termine per la trasposizione della direttiva ed era peraltro imputabile ad operatori diversi da quelli attualmente destinatari della richiesta di risarcimento. Il governo ellenico, altro interveniente, riteneva invece possibile l’applicazione della direttiva sulla base dell’art. 17, secondo trattino, in considerazione della continuità dell’azione inquinante, non conclusasi prima della data di scadenza per l’attuazione della direttiva. La Corte, precisando il contenuto dell’art. 17, che consente di applicare la direttiva “ai danni causati da un’emissione, un evento o un incidente avvenuti dopo il 30 aprile 2007 quando questi danni derivano o da attività svolte successivamente a tale data, o da attività svolte anteriormente a tale data, ma non ultimate prima della scadenza della medesima” (punto 41), ribadisce che la questione dell’applicabilità temporale della direttiva deve essere risolta dal giudice del rinvio, solo questo conoscendo gli elementi di fatto necessari a tal fine. Essa formula però alcune osservazioni in relazione ad entrambe le possibili decisioni del giudice comune sul punto. Nel caso in cui giudice di rinvio non ritenga applicabile la direttiva, il quesito sulla responsabilità degli operatori dovrebbe essere risolto sulla base della normativa nazionale, nel quadro però della disciplina generale posta dal Trattato CE in materia, e fatti salvi altri atti legislativi dell’Unione (punto 44). Esso precisa tuttavia che il principio “chi inquina paga”, espresso dall’art. 174 TCE (attualmente 191 TFUE) è riferito all’azione della Comunità (oggi dell’Unione), non degli Stati membri, e dunque in quanto tale non può esser dotato di effetti diretti a favore dei privati.
Qualora invece il giudice del rinvio consideri applicabile la direttiva al caso di specie ratione temporis, il giudice dell’Unione procede ad interpretarne le pertinenti norme, ratione materiae.
La Corte sottolinea primariamente che spetta al giudice del rinvio anche l’inquadramento della fattispecie, segnatamente la sua riconducibiltà o meno ad un inquinamento di tipo diffuso; tuttavia precisa che con riferimento all’inquinamento diffuso la direttiva trova applicazione nei soli casi in cui risulti possibile l’accertamento del nesso causale (art. 4, 5° comma) fra l’azione dell’operatore e il danno realizzato. Il primo elemento oggetto della sua interpretazione verte dunque sulla necessità o meno per l’autorità nazionale di provare il nesso causale. Ad avviso del governo italiano tale elemento non dovrebbe essere provato, perché il caso in esame rientrerebbe nella fattispecie di cui all’art. 3, comma 1, lett. a) della direttiva, che pone un regime di responsabilità oggettiva nei confronti degli operatori per i danni accertati. Nel caso di specie, del resto, il governo italiano ritiene accertato in re ipsa il nesso causale, essendosi le imprese interessate autodenunciate e risultando una sostanziale coincidenza fra le materie inquinanti prodotte dagli operatori e quelle rinvenute nei siti inquinati. Il governo ellenico, in adesione alla posizione dell’Italia, sottolinea inoltre che la prova del nesso di causalità sembrerebbe essere richiesta all’operatore che voglia sottrarsi da responsabilità, dovendo questi dimostrare che l’attività inquinante è stata causata da un terzo (art. 8, 3° comma, lett.a). Ad avviso della Commissione, invece, la direttiva non dovrebbe trovare applicazione nei casi in cui non sia possibile identificare con certezza gli autori del danno, ma essa non impedisce agli Stati membri di applicare regimi di maggior rigore, quale l’individuazione di nuove categorie di responsabili, per meglio realizzare le finalità della direttiva.
La Corte ribadisce la competenza statale con riferimento alla determinazione delle modalità di accertamento del nesso di causalità, che potrebbero essere anche di tipo presuntivo. Tuttavia, in osservanza del principio “chi inquina paga”, che impone l’obbligo riparatorio agli operatori solo nella misura della loro contribuzione all’evento dannoso o pericoloso, a giudizio della Corte siffatta presunzione dovrebbe essere basata su indizi plausibili, “quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività” (punto 57).
Qualora dunque il giudice nazionale ritenga che il caso in esame ricada nell’ipotesi di inquinamento diffuso e non ravvisi un sufficiente nesso causale, la direttiva non potrà trovare applicazione, e la controversia troverà soluzione alla luce della normativa nazionale, alle condizioni indicate nel punto 44 della sentenza. Qualora invece il giudice di rinvio ritenga di poter applicare la direttiva ratione materiae, l’Autorità nazionale non è tenuta a provare l’elemento soggettivo in termini di dolo o colpa dell’operatore, ma la Corte precisa che in ogni caso l’Autorità nazionale sarà tenuta a provare l’origine dell’inquinamento e l’esistenza di un nesso di causalità fra l’attività dell’operatore cui è chiesto il risarcimento e il danno accertato, sulla base del combinato disposto degli artt. 3, 1° comma e 4, 5° comma, e 11, 2° comma della direttiva in esame, anche nel caso in cui si rientri nelle previsioni di cui all’art. 3, 1° comma, lett. a), che esclude solo la necessità della prova dell’elemento soggettivo, ma non l’individuazione dell’autore del danno e la prova del nesso causale.
4. La sentenza appare interessante per diversi profili. Essa innanzitutto esclude con fermezza la possibilità di imputare una responsabilità per danno ambientale ad un operatore basata sul mero criterio della posizione, in quanto incompatibile con il principio “chi inquina paga”, che richiede da un lato la necessità di individuazione certa dell’autore dell’illecito e dall’altro un nesso causale sufficientemente forte fra l’autore e il danno arrecato. Essa ribadisce dunque la centralità del nesso causale anche nelle ipotesi di responsabilità oggettiva, che si limitano ad escludere solo la prova dell’elemento soggettivo.
Inoltre, nel riconoscere la possibilità di un nesso presunto, lo ancora però a criteri di una certa probabilità e verificabilità. La stessa formulazione esemplificativa della Corte sembrerebbe del resto richiamare la necessità di una pluralità di indizi concordanti (l’uso della congiunzione coordinativa ne pare testimonianza evidente) e di un certo peso al fine dell’imputazione di responsabilità ad un operatore.
Infine, nelle ipotesi di inapplicabilità della direttiva, ratione temporis e ratione materiae, se, come correttamente ricordato dalla Corte, il principio di cui all’art. 191 TFUE non può esser fatto valere direttamente da un privato nei confronti di uno Stato per resistere alla richiesta di quest’ultimo di riparare un danno ambientale sulla base della semplice imputazione di responsabilità da posizione, altri principi, dotati di effetti diretti, potrebbero all’uopo soccorrere, quali il principio di proporzionalità (art. 5, quarto paragrafo TUE). Nello stesso senso il principio de quo potrebbe trovare applicazione estensiva quando espresso in altri documenti legislativi dell’Unione, segnatamente in altre direttive di tutela ambientale (per una ricostruzione in tal senso, vedi le Conclusioni alla causa in esame, presentate dall’Avvocato generale Kokott in data 22 ottobre 2009, punti 130 ss.).
Il principio in esame esprime un criterio cardine della politica ambientale dell’Unione. Esso è disciplinato, come noto, nell’articolo 191 TFUE (ex art. 174, secondo paragrafo, TCE), che nel secondo paragrafo stabilisce espressamente che “la politica dell’Unione in materia ambientale […] è fondata sul principio della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio ‘chi inquina paga’”. Esso si fonda sull’imputazione del costo sociale del danno a colui che lo causa e mira a salvaguardare la salute umana e le risorse ambientali. Il principio, che ha trovato esplicita base giuridica nell’Atto Unico Europeo (art. 130R TCE), pur risultando già richiamato in raccomandazioni del Consiglio sin dalla metà degli anni settanta, fa entrare nel processo economico di produzione i costi di prevenzione e riparazione di danni potenziali od effettivi provocati all’ambiente. Dopo un’iniziale preferenza verso la creazione strumenti preventivi (si pensi alle norme comunitarie che prevedono limiti di emissione o di sversamento), il legislatore comunitario ha applicato il principio del pollueur-payeur anche a strumenti di tipo riparatorio.
Il primo esempio di strumento di questo secondo tipo è costituito dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004, 2004/35/CE, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale (GUUE L 143, p. 56 ss.), oggetto della pronuncia della Corte qui analizzata. Essa si pone l’obiettivo di dettare norme uniformi in tema di responsabilità ambientale. Primariamente la direttiva definisce la nozione di danno ambientale: costituisce danno “un mutamento negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa naturale, che può prodursi direttamente o indirettamente” (art. 2, 2° comma), ed è ambientale quello perpetrato contro le specie e gli habitat naturali protetti, le acque ed i terreni (art. 2, 1° comma). L’oggetto della direttiva è dunque limitato al danno ambientale e non al danno patrimoniale conseguente (con ciò innovando profondamente rispetto ai tradizionali modelli di tutela ambientale, incentrati sulla responsabilità civile, che risarciscono danni alla proprietà privata, alle perdite economiche e alla salute). Al fine di armonizzare il regime di responsabilità per danni ambientali, la direttiva ha fissato un duplice regime: da un lato, ha previsto l’attribuzione di responsabilità oggettiva per danni arrecati o potenzialmente arrecabili ad opera di determinate attività professionali ritenute pericolose, esplicitamente elencate nell’Allegato III alla direttiva (art. 3, lett. a). Dall’altro lato essa trova applicazione anche con riferimento alle altre attività professionali, non espressamente considerate pericolose dall’allegato III, questa volta però limitatamente ai casi in cui l’operatore abbia agito con dolo o con colpa e solo per i danni arrecati o le minacce di danno a specie ed habitat naturali protetti (art. 3, lett. b). L’art. 4 della direttiva esclude poi l’applicabilità della stessa ai casi di inquinamento a carattere diffuso, salvo che “sia possibile accertare un nesso causale tra il danno e l’attività di singoli operatori” (art. 4, 5° comma).
Ai sensi dell’art. 19 della direttiva il termine per il suo recepimento negli Stati membri è stato fissato al 30 aprile 2007. Come indicato nel recente Rapporto della Commissione sulla direttiva 2004/35 (COM(2010) 581 final, 12 october 2010, Report from the Commission to the Council, the European Parliament, the European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions Under Article 14(2) of Directive 2004/35/CE on the Environmental Liability with regard to the Prevention and Remedying of Environmental Damage), solo quattro Stati hanno però adattato la propria legislazione nazionale alla direttiva entro il termine previsto. Fra questi l’Italia, con il d. lgs. 152/2006, Norme in materia ambientale, (GURI, del 14 aprile 2006, n. 88), modificato con d.l. 235/09 (GURI del 25 settembre 2009, n. 223) a seguito dell’apertura di una procedura d’infrazione (n. 2007/4679, del 31 gennaio 2008) per errata trasposizione della direttiva. La Commissione europea in particolare rimproverava all’Italia di non aver recepito il criterio della responsabilità oggettiva per i danni causati dalle attività professionali pericolose, ma di aver mantenuto per l’imputazione di responsabilità i criteri del dolo e della colpa. Occorre tuttavia precisare che in relazione al profilo della responsabilità oggettiva la difformità fra direttiva e normativa italiana persiste tuttora nonostante la modifica legislativa.
2. Il TAR Sicilia con decisione 5 giugno 2008 ha sollevato davanti al giudice dell’Unione una serie di questioni pregiudiziali, nell’ambito di controversie fra alcune società operanti nel settore degli idrocarburi e della petrolchimica (Raffinerie Mediterranee SpA, Polimeri Europa SpA e Syndial SpA) e diversi enti nazionali e territoriali. Le cause principali vertono sull’imputazione dei costi di riparazione di danni ambientali subiti in particolare dalla Rada di Augusta, in cui si trovano ed operano le suddette società. Nell’ordinanza di rinvio il giudice a quo ha chiesto alla Corte di giustizia di precisare alcuni aspetti del principio “chi inquina paga” ai sensi dell’art. 174 del TCE e della direttiva 2004/35/CE che ne costituisce applicazione. Egli ha chiesto se esso osti ad una normativa nazionale che consente alla Pubblica Amministrazione di imporre ad alcuni imprenditori privati – per il solo fatto che esercitino attualmente la propria attività in una zona da lungo tempo contaminata, o limitrofa a quella storicamente contaminata – misure di riparazione dei danni ambientali, senza una previa indagine sull’origine dell’inquinamento, e senza aver accertato il nesso di causalità tra i danni arrecati e gli operatori, né il dolo o la colpa di questi ultimi.
3. Dopo aver dichiarato la ricevibilità della domanda sulla base della consolidata giurisprudenza Rheinmühlen, che riconosce ad un giudice di grado inferiore la possibilità di proporre ricorso pregiudiziale alla Corte di giustizia, se tema che la valutazione in diritto formulata dall’istanza superiore possa condurlo ad emettere un giudizio contrario al diritto dell’Unione (sentenza del 16 gennaio 1974, causa 166/73, Rheinmühlen-Düsseldorf, in Raccolta, p. 33 ss., punto 4), la Corte ha risposto alle questioni interpretative sottoposte al suo esame.
In via preliminare, la Corte ha ritenuto necessario risolvere un problema di applicazione temporale della direttiva. Infatti, ad avviso del governo italiano e della Commissione, e del governo olandese intervenuto, la direttiva non sarebbe applicabile ratione temporis al caso di specie, in virtù del fatto che l’inquinamento della Rada di Augusta si perpetrava già da svariati decenni, molto precedenti alla scadenza del termine per la trasposizione della direttiva ed era peraltro imputabile ad operatori diversi da quelli attualmente destinatari della richiesta di risarcimento. Il governo ellenico, altro interveniente, riteneva invece possibile l’applicazione della direttiva sulla base dell’art. 17, secondo trattino, in considerazione della continuità dell’azione inquinante, non conclusasi prima della data di scadenza per l’attuazione della direttiva. La Corte, precisando il contenuto dell’art. 17, che consente di applicare la direttiva “ai danni causati da un’emissione, un evento o un incidente avvenuti dopo il 30 aprile 2007 quando questi danni derivano o da attività svolte successivamente a tale data, o da attività svolte anteriormente a tale data, ma non ultimate prima della scadenza della medesima” (punto 41), ribadisce che la questione dell’applicabilità temporale della direttiva deve essere risolta dal giudice del rinvio, solo questo conoscendo gli elementi di fatto necessari a tal fine. Essa formula però alcune osservazioni in relazione ad entrambe le possibili decisioni del giudice comune sul punto. Nel caso in cui giudice di rinvio non ritenga applicabile la direttiva, il quesito sulla responsabilità degli operatori dovrebbe essere risolto sulla base della normativa nazionale, nel quadro però della disciplina generale posta dal Trattato CE in materia, e fatti salvi altri atti legislativi dell’Unione (punto 44). Esso precisa tuttavia che il principio “chi inquina paga”, espresso dall’art. 174 TCE (attualmente 191 TFUE) è riferito all’azione della Comunità (oggi dell’Unione), non degli Stati membri, e dunque in quanto tale non può esser dotato di effetti diretti a favore dei privati.
Qualora invece il giudice del rinvio consideri applicabile la direttiva al caso di specie ratione temporis, il giudice dell’Unione procede ad interpretarne le pertinenti norme, ratione materiae.
La Corte sottolinea primariamente che spetta al giudice del rinvio anche l’inquadramento della fattispecie, segnatamente la sua riconducibiltà o meno ad un inquinamento di tipo diffuso; tuttavia precisa che con riferimento all’inquinamento diffuso la direttiva trova applicazione nei soli casi in cui risulti possibile l’accertamento del nesso causale (art. 4, 5° comma) fra l’azione dell’operatore e il danno realizzato. Il primo elemento oggetto della sua interpretazione verte dunque sulla necessità o meno per l’autorità nazionale di provare il nesso causale. Ad avviso del governo italiano tale elemento non dovrebbe essere provato, perché il caso in esame rientrerebbe nella fattispecie di cui all’art. 3, comma 1, lett. a) della direttiva, che pone un regime di responsabilità oggettiva nei confronti degli operatori per i danni accertati. Nel caso di specie, del resto, il governo italiano ritiene accertato in re ipsa il nesso causale, essendosi le imprese interessate autodenunciate e risultando una sostanziale coincidenza fra le materie inquinanti prodotte dagli operatori e quelle rinvenute nei siti inquinati. Il governo ellenico, in adesione alla posizione dell’Italia, sottolinea inoltre che la prova del nesso di causalità sembrerebbe essere richiesta all’operatore che voglia sottrarsi da responsabilità, dovendo questi dimostrare che l’attività inquinante è stata causata da un terzo (art. 8, 3° comma, lett.a). Ad avviso della Commissione, invece, la direttiva non dovrebbe trovare applicazione nei casi in cui non sia possibile identificare con certezza gli autori del danno, ma essa non impedisce agli Stati membri di applicare regimi di maggior rigore, quale l’individuazione di nuove categorie di responsabili, per meglio realizzare le finalità della direttiva.
La Corte ribadisce la competenza statale con riferimento alla determinazione delle modalità di accertamento del nesso di causalità, che potrebbero essere anche di tipo presuntivo. Tuttavia, in osservanza del principio “chi inquina paga”, che impone l’obbligo riparatorio agli operatori solo nella misura della loro contribuzione all’evento dannoso o pericoloso, a giudizio della Corte siffatta presunzione dovrebbe essere basata su indizi plausibili, “quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività” (punto 57).
Qualora dunque il giudice nazionale ritenga che il caso in esame ricada nell’ipotesi di inquinamento diffuso e non ravvisi un sufficiente nesso causale, la direttiva non potrà trovare applicazione, e la controversia troverà soluzione alla luce della normativa nazionale, alle condizioni indicate nel punto 44 della sentenza. Qualora invece il giudice di rinvio ritenga di poter applicare la direttiva ratione materiae, l’Autorità nazionale non è tenuta a provare l’elemento soggettivo in termini di dolo o colpa dell’operatore, ma la Corte precisa che in ogni caso l’Autorità nazionale sarà tenuta a provare l’origine dell’inquinamento e l’esistenza di un nesso di causalità fra l’attività dell’operatore cui è chiesto il risarcimento e il danno accertato, sulla base del combinato disposto degli artt. 3, 1° comma e 4, 5° comma, e 11, 2° comma della direttiva in esame, anche nel caso in cui si rientri nelle previsioni di cui all’art. 3, 1° comma, lett. a), che esclude solo la necessità della prova dell’elemento soggettivo, ma non l’individuazione dell’autore del danno e la prova del nesso causale.
4. La sentenza appare interessante per diversi profili. Essa innanzitutto esclude con fermezza la possibilità di imputare una responsabilità per danno ambientale ad un operatore basata sul mero criterio della posizione, in quanto incompatibile con il principio “chi inquina paga”, che richiede da un lato la necessità di individuazione certa dell’autore dell’illecito e dall’altro un nesso causale sufficientemente forte fra l’autore e il danno arrecato. Essa ribadisce dunque la centralità del nesso causale anche nelle ipotesi di responsabilità oggettiva, che si limitano ad escludere solo la prova dell’elemento soggettivo.
Inoltre, nel riconoscere la possibilità di un nesso presunto, lo ancora però a criteri di una certa probabilità e verificabilità. La stessa formulazione esemplificativa della Corte sembrerebbe del resto richiamare la necessità di una pluralità di indizi concordanti (l’uso della congiunzione coordinativa ne pare testimonianza evidente) e di un certo peso al fine dell’imputazione di responsabilità ad un operatore.
Infine, nelle ipotesi di inapplicabilità della direttiva, ratione temporis e ratione materiae, se, come correttamente ricordato dalla Corte, il principio di cui all’art. 191 TFUE non può esser fatto valere direttamente da un privato nei confronti di uno Stato per resistere alla richiesta di quest’ultimo di riparare un danno ambientale sulla base della semplice imputazione di responsabilità da posizione, altri principi, dotati di effetti diretti, potrebbero all’uopo soccorrere, quali il principio di proporzionalità (art. 5, quarto paragrafo TUE). Nello stesso senso il principio de quo potrebbe trovare applicazione estensiva quando espresso in altri documenti legislativi dell’Unione, segnatamente in altre direttive di tutela ambientale (per una ricostruzione in tal senso, vedi le Conclusioni alla causa in esame, presentate dall’Avvocato generale Kokott in data 22 ottobre 2009, punti 130 ss.).