PER UNA LIBERA CIRCOLAZIONE DEGLI AVVOCATI EFFETTIVA ANCHE IN ITALIA
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di Valeria Di Comite
Uno degli obblighi principali degli Stati membri dell’Unione europea è quello di assicurare il rispetto delle quattro libertà fondamentali: la libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali. Tale rispetto è condizione essenziale per realizzare il mercato unico. Non sempre però, gli Stati membri garantiscono appieno la loro attuazione. La libera circolazione delle persone è senz’altro uno degli ambiti in cui la “soppressione delle frontiere” si è concretizzata, e continua a farlo, a piccoli passi. Un ruolo decisivo, per rendere effettivo il diritto dei cittadini europei a svolgere la propria attività in uno Stato membro diverso da quello di origine, è stato svolto dalla giurisprudenza. Le reticenze degli Stati, tuttavia, non sono ancora superate completamente e ancora oggi è necessario l’intervento della Corte per rendere effettivi dei diritti che discendono dai trattati costitutivi e dagli atti emanati dalle istituzioni europee. In relazione alla libera circolazione degli avvocati, infatti, sono numerose le sentenze della Corte che hanno permesso un po’ alla volta di assicurare a questi professionisti il godimento dei diritti previsti dalle norme del trattato, in particolare, da una parte, il diritto di stabilimento che ai sensi dell’art. 43 (ex art. 52) del trattato CE implica la possibilità di svolgere in maniera permanente la propria attività indipendente in uno Stato membro diverso da quello di origine, e dall’altra, il diritto alla libera prestazione di servizi in maniera occasionale previsto dall’art. 49 (ex art. 59) del trattato CE. E’ opportuno ricordare che queste due norme sono state ulteriormente specificate in relazione alla professione di avvocato da due direttive: la direttiva del Consiglio n. 77/249 del 22 marzo 1977, “intesa a facilitare l’esercizio effettivo della libera prestazione di servizi da parte degli avvocati” (GUCE L 78, del 1977, p.17), recepita in Italia con la legge del 9 febbraio 1982, n.31 (GURI n. 42 del 12 febbraio 1982, p. 1030) e la direttiva del Parlamento e del Consiglio n. 98/5, del 16 gennaio 1998 (GUCE L 77 del 14.3.1998, n. 1).
Bisogna precisare che per agevolare la libera circolazione dei lavoratori non subordinati, il 21 dicembre 1988 il Consiglio aveva adottato la direttiva n. 89/48 “relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanciscono formazioni professionali di durata minima di tre anni” (GUCE L 19, del 1989, p. 16), recepita in Italia con il decreto legislativo del 27 gennaio 1992, n. 115 (GURI n. 40 del 18 febbraio 1992, p. 6).
Nonostante l’impegno delle Istituzioni europee per rendere effettiva la libera circolazione degli avvocati, ancora oggi non è facile accedere e svolgere tale professione in uno Stato diverso da quello in cui si è ottenuto il titolo. Tale constatazione è valida anche per il nostro Stato, come dimostra una recentissima pronuncia della Corte di Giustizia (Sentenza della Corte dell’8 marzo 2002, Causa C-145/99, Commissione c. Italia) che vede condannata l’Italia per la violazione degli obblighi derivanti dagli articoli 43 e 49 (già articoli 52 e 59) del trattato nonché dalla direttiva 89/48/CEE, in relazione alle norme sull’accesso ed esercizio della professione di avvocato.
La Corte, adita dalla Commissione ai sensi dell’art. 226 (ex art. 169) del trattato CE, ha dichiarato che alcune disposizioni della legislazione italiana relative all’accesso e all’esercizio della professione di avvocato sono in contrasto con la normativa comunitaria. Bisogna premettere che l’accesso a tale professione in Italia è regolato dal Regio Decreto Legge del 27 novembre 1933, n. 1578 (GU n. 281 del 5 dicembre 1933, p. 5521).
Le censure che sono state mosse, dalla Commissione, al governo italiano sono essenzialmente quattro:
1) La prima riguarda l’art. 2, secondo comma, della legge n. 31/82, che ha trasposto in Italia la direttiva n. 77/294, che vieta agli avvocati che sono stabiliti in altri Stati membri e che intendano fornire prestazioni di servizi in Italia di disporre di un’infrastruttura in loco. La ratio di questa norma, secondo il governo italiano, dovrebbe essere quella di evitare che sia elusa la disciplina – più severa – sul diritto di stabilimento. Considerando che nella Sentenza Gebhard (Sentenza del 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard, Racc. p. I-4165, punto 27) era già stato precisato come il carattere temporaneo di una prestazione di servizi non escluda la possibilità per il prestatore di dotarsi di un’infrastruttura nello Stato ospite, la Corte ha ritenuto che l’art. 2 della legge 31/82 sia in contrasto con l’art. 49 del Trattato.
2) La seconda contestazione concerne l’art. 17 n. 1, punto 7, del Regio Decreto Legge 1578/33, che prevede l’obbligo per gli avvocati di risiedere nel circondario del tribunale da cui dipende il foro al quale si è iscritti. Nelle sue difese il governo italiano aveva eccepito che tale obbligo derivava da esigenze di organizzazione giudiziaria, e che per di più nella pratica l’obbligo di residenza, come emerge dal parere n. 6/1994 del Consiglio Nazionale Forense, non fosse più richiesto agli avvocati cittadini degli Stati membri diversi dall’Italia. Invero, la Corte aveva già chiarito in più occasioni, a partire dalla sentenza Klopp (Sentenza della Corte del 12 luglio 1984, causa C-107/83, Klopp, Racc. p. 2971, punto 19) che il diritto di stabilimento implica la facoltà di creare e conservare più di un centro di attività nel territorio della Comunità. L’obbligo di residenza è pertanto, apertamente in contrasto con la giurisprudenza comunitaria. Bisogna evidenziare inoltre che la Corte ha chiaramente stabilito il principio per cui l’incompatibilità di una normativa nazionale con le disposizioni comunitarie, persino direttamente applicabili, può essere definitivamente eliminata solo tramite disposizioni interne vincolanti che abbiano lo stesso valore giuridico di quelle da modificare (sentenza del 13 marzo 1997, causa C- 197/96, Commissione c. Francia, Racc. p. I-1489, punto 14 e sentenza del 9 marzo 2000, causa C- 358/98, Commissione c. Italia, Racc. p. I-1255, punto 17). Ne consegue che semplici prassi amministrative, per natura modificabili dall’amministrazione e prive di adeguata pubblicità, non possano costituire un valido adempimento degli obblighi comunitari. Anche sotto questo profilo, pertanto la censura della Commissione è stata dichiarata fondata.
3) La terza censura attiene all’art. 17 n.1 punti 1, 4 e 5 del Regio Decreto Legge n. 1578/33 che subordina l’accesso alla professione di avvocato al possesso della cittadinanza italiana e di una laurea italiana in giurisprudenza, nonché al compimento del tirocinio di due anni dinanzi agli organi giurisdizionali italiani. Benché sia pacifico che il requisito di cittadinanza sia stato abrogato dall’art. 10 della legge del 22 febbraio 1994, n. 146 (legge comunitaria per il 1993, GURI n. 52 del 4 marzo 1994, p. 1) secondo il quale i cittadini europei sono equiparati ai cittadini italiani ai fini dell’iscrizione all’albo, e nonostante sia altrettanto palese che le disposizioni relative al possesso di una laurea italiana in giurisprudenza e al compimento di un tirocinio siano state abrogate dal decreto legislativo n. 115/92, la Commissione contestava all’Italia che la mancata modifica del testo del Regio Decreto Legge n. 1578/33 fosse contraria al principio di certezza del diritto. In relazione a questo aspetto la Corte, accogliendo la difesa italiana, ha ritenuto che in applicazione del principio della preminenza della legge successiva - comune alle tradizioni giuridiche di tutti gli Stati membri dell’Unione - il principio di certezza del diritto fosse pienamente rispettato e così anche il principio della compatibilità delle norma nazionali con quelle comunitarie sancito nella sentenza Commissione c. Francia succitata. Per questi motivi su tale punto il ricorso della Commissione non è stata accolto.
4) Infine, le ultime censure mosse dalla Commissione riguardano la trasposizione e l’applicazione nella pratica della prova attitudinale prevista dall’art. 4 della direttiva 89/48 al fine di riconoscere in Italia il titolo di avvocato rilasciato in un altro Stato membro. La Commissione ha contestato all’Italia tale inadempimento per due ordini di motivi. In primo luogo, ha evidenziato che l’Italia ha trasposto in maniera incompleta la direttiva n. 89/48 perché non ha stabilito una normativa generale sulle modalità di applicazione della prova attitudinale, diversamente da quanto previsto nel Decreto legislativo di recepimento n. 115/92. Al contrario, sono stati emanati singoli decreti ministeriali caso per caso, quindi per ciascun candidato sarebbe stata elaborata una prova attitudinale personale. Tale prassi, avrebbe sottoposto i candidati a una situazione di incertezza in relazione alle materie, le modalità di espletamento e la valutazione della prova. In secondo luogo, la Commissione contestava l’applicazione concreta fatta dalle autorità italiane della prova attitudinale, che in alcuni casi aveva riguardato fino a dieci materie. Tale situazione veniva reputata discriminatoria per un’eccessiva difficoltà rispetto all’esame di abilitazione degli avvocati italiani. Le statistiche del 1998, prodotte dalla Commissione, attestavano che su ventinove avvocati cittadini di altri Stati membri che avevano ottenuto il riconoscimento del titolo in Italia, diciotto avevano superato l’esame attitudinale su una sola materia, mentre negli altri casi l’esame aveva riguardato sette, nove e anche tutte le materie. Il governo italiano aveva sottolineato come tale prassi discrezionale derivasse dalla circostanza che le competenze acquisite degli avvocati differiscono da Stato a Stato. La Corte nell’esaminare la compatibilità della normativa italiana con la direttiva n. 89/48, ha posto di manifesto come la stessa direttiva all’art. 1 lett. g) disponga che le autorità competenti “redigono un elenco delle materie che, attraverso un confronto tra la formazione richiesta nello Stato rispettivo e quella ricevuta dal richiedente, non sono comprese nel diploma o nel/nei titolo/i presentato dal richiedente”. Ne discende che il contenuto preciso della prova attitudinale deve essere stabilito caso per caso, dopo aver proceduto ad un raffronto delle qualifiche ed esperienze acquisite dal richiedente, ma nello svolgere la prova deve tenersi in debito conto il fatto che si tratta di “una persona già formata professionalmente in un altro Stato membro”. La Corte considerando che la direttiva n. 89/48, sebbene non preveda che gli Stati membri disciplinino nel dettaglio tutti gli aspetti della prova attitudinale, allo stesso tempo, non li esonera dall’obbligo di precisare e di pubblicare le materie ritenute indispensabili per l’esercizio della professione e le modalità della prova attitudinale, affinché i richiedenti possano conoscere, in linea generale, il contenuto della prova a cui saranno sottoposti. In conclusione, la Corte ha deciso che la trasposizione della direttiva nell’ordinamento italiano fosse incompleta, perché il Decreto legislativo n. 115/92 non precisa né le materie indispensabili per l’esercizio della professione, né le modalità per l’espletamento della prova attitudinale, venendo così a creare una situazione di incertezza giuridica. Al contrario la Corte non ha accolto le censure della Commissione relative alla mancata coerenza e trasparenza nell’attuazione concreta della prova per mancanza di elementi probatori sufficienti.
In conclusione la Corte ha dichiarato che la Repubblica italiana, vietando agli avvocati che sono stabiliti in altri Stati membri e che intendano fornire prestazioni di servizi in Italia di disporre di un’infrastruttura in loco, prevedendo l’obbligo per gli avvocati di risiedere nel circondario del tribunale da cui dipende il foro al quale si è iscritti, senza stabilire una deroga espressa per gli avvocati di altri Stati membri, e avendo trasposto la direttiva n. 89/48 senza precisare le materie e le modalità per l’espletamento della prova attitudinale, è venuta meno agli obblighi imposti dalle norme del trattato CE sul diritto di stabilimento e sulla libera prestazione dei servizi. E’ chiaro che dopo una tale pronuncia l’Italia dovrà compiere i passi necessari per regolare in maniera completa le modalità di accesso e di esercizio della professione di avvocato, al fine di facilitare effettivamente l’esercizio – temporaneo e permanente – della professione di avvocato a tutti i cittadini europei.
Bisogna precisare che per agevolare la libera circolazione dei lavoratori non subordinati, il 21 dicembre 1988 il Consiglio aveva adottato la direttiva n. 89/48 “relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanciscono formazioni professionali di durata minima di tre anni” (GUCE L 19, del 1989, p. 16), recepita in Italia con il decreto legislativo del 27 gennaio 1992, n. 115 (GURI n. 40 del 18 febbraio 1992, p. 6).
Nonostante l’impegno delle Istituzioni europee per rendere effettiva la libera circolazione degli avvocati, ancora oggi non è facile accedere e svolgere tale professione in uno Stato diverso da quello in cui si è ottenuto il titolo. Tale constatazione è valida anche per il nostro Stato, come dimostra una recentissima pronuncia della Corte di Giustizia (Sentenza della Corte dell’8 marzo 2002, Causa C-145/99, Commissione c. Italia) che vede condannata l’Italia per la violazione degli obblighi derivanti dagli articoli 43 e 49 (già articoli 52 e 59) del trattato nonché dalla direttiva 89/48/CEE, in relazione alle norme sull’accesso ed esercizio della professione di avvocato.
La Corte, adita dalla Commissione ai sensi dell’art. 226 (ex art. 169) del trattato CE, ha dichiarato che alcune disposizioni della legislazione italiana relative all’accesso e all’esercizio della professione di avvocato sono in contrasto con la normativa comunitaria. Bisogna premettere che l’accesso a tale professione in Italia è regolato dal Regio Decreto Legge del 27 novembre 1933, n. 1578 (GU n. 281 del 5 dicembre 1933, p. 5521).
Le censure che sono state mosse, dalla Commissione, al governo italiano sono essenzialmente quattro:
1) La prima riguarda l’art. 2, secondo comma, della legge n. 31/82, che ha trasposto in Italia la direttiva n. 77/294, che vieta agli avvocati che sono stabiliti in altri Stati membri e che intendano fornire prestazioni di servizi in Italia di disporre di un’infrastruttura in loco. La ratio di questa norma, secondo il governo italiano, dovrebbe essere quella di evitare che sia elusa la disciplina – più severa – sul diritto di stabilimento. Considerando che nella Sentenza Gebhard (Sentenza del 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard, Racc. p. I-4165, punto 27) era già stato precisato come il carattere temporaneo di una prestazione di servizi non escluda la possibilità per il prestatore di dotarsi di un’infrastruttura nello Stato ospite, la Corte ha ritenuto che l’art. 2 della legge 31/82 sia in contrasto con l’art. 49 del Trattato.
2) La seconda contestazione concerne l’art. 17 n. 1, punto 7, del Regio Decreto Legge 1578/33, che prevede l’obbligo per gli avvocati di risiedere nel circondario del tribunale da cui dipende il foro al quale si è iscritti. Nelle sue difese il governo italiano aveva eccepito che tale obbligo derivava da esigenze di organizzazione giudiziaria, e che per di più nella pratica l’obbligo di residenza, come emerge dal parere n. 6/1994 del Consiglio Nazionale Forense, non fosse più richiesto agli avvocati cittadini degli Stati membri diversi dall’Italia. Invero, la Corte aveva già chiarito in più occasioni, a partire dalla sentenza Klopp (Sentenza della Corte del 12 luglio 1984, causa C-107/83, Klopp, Racc. p. 2971, punto 19) che il diritto di stabilimento implica la facoltà di creare e conservare più di un centro di attività nel territorio della Comunità. L’obbligo di residenza è pertanto, apertamente in contrasto con la giurisprudenza comunitaria. Bisogna evidenziare inoltre che la Corte ha chiaramente stabilito il principio per cui l’incompatibilità di una normativa nazionale con le disposizioni comunitarie, persino direttamente applicabili, può essere definitivamente eliminata solo tramite disposizioni interne vincolanti che abbiano lo stesso valore giuridico di quelle da modificare (sentenza del 13 marzo 1997, causa C- 197/96, Commissione c. Francia, Racc. p. I-1489, punto 14 e sentenza del 9 marzo 2000, causa C- 358/98, Commissione c. Italia, Racc. p. I-1255, punto 17). Ne consegue che semplici prassi amministrative, per natura modificabili dall’amministrazione e prive di adeguata pubblicità, non possano costituire un valido adempimento degli obblighi comunitari. Anche sotto questo profilo, pertanto la censura della Commissione è stata dichiarata fondata.
3) La terza censura attiene all’art. 17 n.1 punti 1, 4 e 5 del Regio Decreto Legge n. 1578/33 che subordina l’accesso alla professione di avvocato al possesso della cittadinanza italiana e di una laurea italiana in giurisprudenza, nonché al compimento del tirocinio di due anni dinanzi agli organi giurisdizionali italiani. Benché sia pacifico che il requisito di cittadinanza sia stato abrogato dall’art. 10 della legge del 22 febbraio 1994, n. 146 (legge comunitaria per il 1993, GURI n. 52 del 4 marzo 1994, p. 1) secondo il quale i cittadini europei sono equiparati ai cittadini italiani ai fini dell’iscrizione all’albo, e nonostante sia altrettanto palese che le disposizioni relative al possesso di una laurea italiana in giurisprudenza e al compimento di un tirocinio siano state abrogate dal decreto legislativo n. 115/92, la Commissione contestava all’Italia che la mancata modifica del testo del Regio Decreto Legge n. 1578/33 fosse contraria al principio di certezza del diritto. In relazione a questo aspetto la Corte, accogliendo la difesa italiana, ha ritenuto che in applicazione del principio della preminenza della legge successiva - comune alle tradizioni giuridiche di tutti gli Stati membri dell’Unione - il principio di certezza del diritto fosse pienamente rispettato e così anche il principio della compatibilità delle norma nazionali con quelle comunitarie sancito nella sentenza Commissione c. Francia succitata. Per questi motivi su tale punto il ricorso della Commissione non è stata accolto.
4) Infine, le ultime censure mosse dalla Commissione riguardano la trasposizione e l’applicazione nella pratica della prova attitudinale prevista dall’art. 4 della direttiva 89/48 al fine di riconoscere in Italia il titolo di avvocato rilasciato in un altro Stato membro. La Commissione ha contestato all’Italia tale inadempimento per due ordini di motivi. In primo luogo, ha evidenziato che l’Italia ha trasposto in maniera incompleta la direttiva n. 89/48 perché non ha stabilito una normativa generale sulle modalità di applicazione della prova attitudinale, diversamente da quanto previsto nel Decreto legislativo di recepimento n. 115/92. Al contrario, sono stati emanati singoli decreti ministeriali caso per caso, quindi per ciascun candidato sarebbe stata elaborata una prova attitudinale personale. Tale prassi, avrebbe sottoposto i candidati a una situazione di incertezza in relazione alle materie, le modalità di espletamento e la valutazione della prova. In secondo luogo, la Commissione contestava l’applicazione concreta fatta dalle autorità italiane della prova attitudinale, che in alcuni casi aveva riguardato fino a dieci materie. Tale situazione veniva reputata discriminatoria per un’eccessiva difficoltà rispetto all’esame di abilitazione degli avvocati italiani. Le statistiche del 1998, prodotte dalla Commissione, attestavano che su ventinove avvocati cittadini di altri Stati membri che avevano ottenuto il riconoscimento del titolo in Italia, diciotto avevano superato l’esame attitudinale su una sola materia, mentre negli altri casi l’esame aveva riguardato sette, nove e anche tutte le materie. Il governo italiano aveva sottolineato come tale prassi discrezionale derivasse dalla circostanza che le competenze acquisite degli avvocati differiscono da Stato a Stato. La Corte nell’esaminare la compatibilità della normativa italiana con la direttiva n. 89/48, ha posto di manifesto come la stessa direttiva all’art. 1 lett. g) disponga che le autorità competenti “redigono un elenco delle materie che, attraverso un confronto tra la formazione richiesta nello Stato rispettivo e quella ricevuta dal richiedente, non sono comprese nel diploma o nel/nei titolo/i presentato dal richiedente”. Ne discende che il contenuto preciso della prova attitudinale deve essere stabilito caso per caso, dopo aver proceduto ad un raffronto delle qualifiche ed esperienze acquisite dal richiedente, ma nello svolgere la prova deve tenersi in debito conto il fatto che si tratta di “una persona già formata professionalmente in un altro Stato membro”. La Corte considerando che la direttiva n. 89/48, sebbene non preveda che gli Stati membri disciplinino nel dettaglio tutti gli aspetti della prova attitudinale, allo stesso tempo, non li esonera dall’obbligo di precisare e di pubblicare le materie ritenute indispensabili per l’esercizio della professione e le modalità della prova attitudinale, affinché i richiedenti possano conoscere, in linea generale, il contenuto della prova a cui saranno sottoposti. In conclusione, la Corte ha deciso che la trasposizione della direttiva nell’ordinamento italiano fosse incompleta, perché il Decreto legislativo n. 115/92 non precisa né le materie indispensabili per l’esercizio della professione, né le modalità per l’espletamento della prova attitudinale, venendo così a creare una situazione di incertezza giuridica. Al contrario la Corte non ha accolto le censure della Commissione relative alla mancata coerenza e trasparenza nell’attuazione concreta della prova per mancanza di elementi probatori sufficienti.
In conclusione la Corte ha dichiarato che la Repubblica italiana, vietando agli avvocati che sono stabiliti in altri Stati membri e che intendano fornire prestazioni di servizi in Italia di disporre di un’infrastruttura in loco, prevedendo l’obbligo per gli avvocati di risiedere nel circondario del tribunale da cui dipende il foro al quale si è iscritti, senza stabilire una deroga espressa per gli avvocati di altri Stati membri, e avendo trasposto la direttiva n. 89/48 senza precisare le materie e le modalità per l’espletamento della prova attitudinale, è venuta meno agli obblighi imposti dalle norme del trattato CE sul diritto di stabilimento e sulla libera prestazione dei servizi. E’ chiaro che dopo una tale pronuncia l’Italia dovrà compiere i passi necessari per regolare in maniera completa le modalità di accesso e di esercizio della professione di avvocato, al fine di facilitare effettivamente l’esercizio – temporaneo e permanente – della professione di avvocato a tutti i cittadini europei.