IL PRINCIPIO DELLA AUTORITA' DI COSA GIUDICATA IN MATERIA FISCALE AL VAGLIO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA
Archivio > Anno 2009 > Ottobre 2009
di Angela Maria ROMITO
Con
la sentenza del 3 settembre 2009 (causa C-2/08 - Amministrazione
dell’Economia e delle Finanze c. Fal-limento Olimpiclub, non ancora
pubblicata in Raccolta) i giudici di Lussemburgo sono tornati a
pronunciarsi sul tema dell’intangibilità del giudicato nazionale, questa
volta nell’ambito di una controversia in materia di Iva.
La vasta eco sollevata dal precedente caso Lucchini (CGCE sentenza del 18 luglio 2007, Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato c. Lucchini Siderurgica Spa, causa C-119/05, in Raccolta, p. I-6199) in tema di aiuti di Stato ha creato grande attenzione da parte degli operatori del diritto che con curiosità attendevano che la Corte comunitaria si pronunciasse nuovamente sul delicato tema della valenza dell’art. 2909 c.c. rispetto all’applicazione delle regole comunitarie.
Il rinvio pregiudiziale sottoposto all’attenzione dei giudici di Lussemburgo è stato sollevato dalla Corte di cassazione nell’ambito di una controversia che vede contrapposte la Amministrazione dell’Economia e delle Finanze e la società Olimpiclub (fallita nelle more del giudizio interno).
Tra l’Olimpiclub srl, società proprietaria di un complesso di attrezzature sportive ubicate su un terreno di proprietà del demanio dello Stato, e l’Associazione Polisportiva Olimpiclub (i cui membri fondatori coincidevano pressoché tutti con i detentori delle quote sociali dell’Olimpiclub srl), era stato stipulato nel 1985 un contratto di comodato in virtù del quale la prima consentiva all’associazione di utilizzare tutte le attrezzature del complesso sportivo, e la seconda assumeva a proprio carico il pagamento del canone demaniale per la concessione in uso del terreno, il rimborso delle spese forfetarie annuali ed il trasferimento di tutte le sue entrate lorde consistenti nell’ammontare complessivo delle quote associative versate dai suoi soci (e quindi non soggette ad Iva).
Nel 1992, l’amministrazione fiscale dopo avere effettuato delle verifiche concernenti il suddetto contratto era giunta alla conclusione che le parti di tale accordo, mediante un atto formalmente lecito, avevano, in realtà, perseguito esclusivamente il fine di eludere l’obbligo impositivo attraverso il conseguimento di un indebito risparmio fiscale.
Avendo pertanto considerato che il contratto di comodato era inopponibile, l’amministrazione fiscale aveva attribuito all’Olimpiclub tutto il reddito lordo prodotto dall’Associazione durante gli anni oggetto del controllo fiscale e aveva rettificato, di conseguenza, con quattro avvisi di rettifica, le dichiarazioni dell’Iva presentate dall’Olimpiclub per le annualità fiscali 1988-1991.
La società aveva con successo proposto ricorso avverso tali avvisi di rettifica dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di primo grado; ed anche in appello la Commissione tributaria regionale del Lazio aveva confermato la liceità dell’accordo concluso valutando che vi fossero validi motivi economici che giustificavano la condotta tributaria perpetrata.
L’esito della controversia giunta dinnanzi alla Corte di cassazione è stato ribaltato sulla scorta della pronuncia pregiudiziale dei giudici di Lussemburgo che, come ben noto, è vincolante per il giudice interno.
La sentenza interpretativa ex art. 234 CE è scaturita dal rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte Suprema italiana giacché nell’ambito del procedimento di ultimo grado il Curatore del Fallimento Olimpiclub ha fatto valere due sentenze della Commissione tributaria regionale del Lazio passate in giudicato e aventi ad oggetto avvisi di rettifica in materia di Iva redatti in seguito al medesimo controllo fiscale riguardante la srl, ma concernenti altre annualità fiscali (1992 e 1987).
Secondo la difesa della società resistente anche se tali sentenze si riferivano a periodi d’imposta diversi, gli accertamenti ivi operati, nonché la soluzione adottata sarebbero diventati vincolanti nella causa principale, in virtù dell’art. 2909 c.c. che sancisce il principio dell’autorità di cosa giudicata.
Il Collegio giudicante per risolvere la controversia oggetto del contendere avendo rilevato il contrasto tra la norma sovranazionale (che pone il divieto delle pratiche abusive nel settore dell’Iva) e quella interna (che sancisce il principio della intangibilità della res iudicata) con ordinanza n. 26996 del 21 dicembre 2007 ha sollevato un rinvio pregiudiziale chiedendo ai giudici europei “se il diritto comunitario osti all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come quella di cui all’art. 2909 c.c., tesa a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, quando tale applicazione venga a consacrare un risultato che contrasta con il diritto comunitario, frustrandone l’appli-cazione, anche in settori diversi da quello degli aiuti di Stato (per cui, v. Lucchini s.p.a., cit.) e, segnatamente, in materia di Iva e di abuso di diritto posto in essere per conseguire indebiti risparmi d’imposta, avuto, in particolare, riguardo anche al criterio di diritto nazionale, così come interpretato dalla giurisprudenza di questa corte, secondo cui, nelle controversie tributarie, il giudicato esterno, qualora l’accertamento consacrato concerna un punto fondamentale comune ad altre cause, esplica, rispetto a questo, efficacia vincolante anche se formatosi in relazione ad un diverso periodo d’imposta”.
La Corte di giustizia di rimando ha statuito che: “Il diritto comunitario osta all’applicazione, in circostanze come quelle della causa principale, di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile, in una causa vertente sull’imposta sul valore aggiunto concernente un’annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva, in quanto essa impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche abusive legate a detta imposta”.
Le motivazioni addotte in sentenza meritano di essere illustrate ed approfondite: nello scenario giuridico nazionale si rileva che per lungo tempo nell’ordinamento italiano era prevalso in materia fiscale il c.d. principio della frammentazione dei giudicati, in base al quale ogni annualità fiscale avrebbe conservato la propria autonomia rispetto alle altre creando ogni anno tra il contribuente ed il fisco un rapporto giuridico distinto rispetto a quello delle annualità precedenti e successive; tuttavia tale impostazione sarebbe stata abbandonata a favore di una impostazione opposta protesa a far valere il principio dell’autorità della cosa giudicata che, applicata al caso di specie, avrebbe vincolato il giudice del rinvio alle su indicate sentenze della Commissione tributaria che attestavano in modo definitivo ed inoppugnabile il carattere lecito e non fraudolento del contratto di comodato.
L’approccio della Corte di Lussemburgo sembra ancora una volta rivolto a fornire al giudice a quo gli elementi per risolvere la causa pendente, piuttosto che ad enunciare un principio giurisprudenziale unitario suscettibile di applicazione generale.
Ed infatti i giudici europei, come ormai di prassi, hanno rammentato che il principio nazionale dell’autorità di cosa giudicata non è sminuito né eroso dal diritto comunitario in virtù della indiscussa importanza che esso riveste al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia.
Come già più volte ribadito nei precedenti Köbler e Kapferer (rispettivamente sentenza del 30 settembre 2003, causa C-224/01, Racc. p. I-10239, punto 38, e sentenza 16 marzo 2006, causa C-234/04, Racc. p. I-2585, punto 20), è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione. Si rimarca che non è un obiettivo preciso dell’ordinamento europeo quello di scalfire i capisaldi degli ordinamenti interni, né di avere una ingerenza tale da imporre ad un giudice nazionale di disapplicare tout court le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione.
Fatto salvo il principio dell’autonomia degli Stati in tema di regole di procedura (da coniugarsi sempre con il rispetto delle condizioni dettate dal principio di equivalenza e di principio di effettività), la Corte di giustizia ha ulteriormente chiarito che il riferimento operato dal giudice a quo al caso Lucchini, ed il dubbio se la massima ivi statuita potesse essere applicata anche alla controversia dell’Olimpiclub, è del tutto fuorviante giacché la fattispecie in esame non è assimilabile a quella rappresentata nel precedente citato: in quel caso si versava in una situazione del tutto particolare in cui il principio della res iudicata ha dovuto cedere in nome del rispetto del principio della ripartizione di competenze tra gli Stati membri e la Comunità in materia di aiuti di Stato (in particolare si ricorda che è la Commissione europea l’istituzione deputata ad avere una competenza esclusiva e diretta per esaminare la compatibilità di una misura nazionale di aiuti di Stato con il mercato comune); il fulcrum della controversia tra l’Olimpiclub ed il Fisco è, invece, la compatibilità tra il principio dell’autorità di cosa giudicata in materia fiscale (secondo cui, una volta intervenuta una sentenza passata in giudicato in una controversia tributaria instauratasi tra l’amministrazione ed uno soggetto passivo di Iva, questa, benché relativa ad un periodo d’imposta diverso da quello che costituisce l’oggetto del procedimento, può essere utilmente invocata in un’altra controversia contro lo stesso soggetto, precludendo così di fatto al giudice nazionale la possibilità di valutare se una data operazione imponibile ai fini Iva costituisca un comportamento abusivo nell’ambito del sistema comunitario armonizzato dell’imposta sul valore aggiunto) ed il principio di effettività.
La Corte passa, dunque, ad esaminare più in particolare se l’interpretazione soprammenzionata dell’art. 2909 c.c. possa essere giustificata alla luce della salvaguardia del principio del-la certezza del diritto, tenuto conto delle conseguenze che ne deriverebbero per l’applicazione del diritto comunitario: si osserva che la nuova interpretazione dell’art. 2909 c.c. applicata alla materia fiscale, non solo impedirebbe di rimettere in discussione una decisione giurisdizionale che abbia acquistato efficacia di giudicato, anche se tale decisione comportasse una violazione del diritto comunitario, ma soprattutto ostacolerebbe qualsiasi revisione degli esercizi fiscali concernente il medesimo contribuente o soggetto passivo quando la decisione definitiva si basasse su una interpretazione delle norme comunitarie che riguardassero pratiche abusive in materia di Iva in contrasto con il diritto comunitario.
Una siffatta applicazione del principio dell’autorità di cosa giudicata avrebbe dunque la conseguenza che, laddove la decisione giurisdizionale divenuta definitiva fosse fondata su un’interpretazione delle norme comunitarie relative a pratiche abusive in materia fiscale in contrasto con il diritto comunitario, la non corretta applicazione di tali regole si riprodurrebbe per ciascun nuovo esercizio fiscale, senza che fosse possibile correggere tale erronea interpretazione.
La Corte, quindi, conclude che il contrasto tra un provvedimento nazionale definito in materia fiscale ed una norma comunitaria debba risolversi utilizzando non il criterio primato del diritto comunitario (così come, invece, supponeva la Corte di cassazione), ma utilizzando il criterio della effettività: gli ostacoli su illustrati all’applicazione effettiva delle norme comunitarie in materia di Iva non possono essere ragionevolmente giustificati dal principio della certezza del diritto e devono essere dunque considerati in contrasto con il principio di effettività.
La soluzione adottata nel caso di specie, ancora una volta, non permette di enunciare un principio giurisprudenziale unitario in tema di rapporti tra il diritto comunitario e gli atti nazionali divenuti definitivi: come indicato dall’Avvocato Generale nelle conclusioni presentate nel marzo 2009, l’analisi della giurisprudenza pregressa in argomento non lascerebbe emergere, diversamente dal quanto suggerito dal giudice del rinvio, una tendenza generale della giurisprudenza della Corte ad erodere o ad attenuare il principio della cosa giudicata. La Corte comunitaria continua, invece, ad assumere un case by case approach, finalizzato a fornire al giudice nazionale gli elementi utili per la soluzione del caso concreto.
E se da un lato nel complesso ne risulta un quadro giurisprudenziale necessariamente frammentato ed incerto, è anche vero che le pronunce in cui la Corte ha affrontato la questione dei rapporti tra res iudicata nazionale (o decisione amministrativa nazionale definitiva) contrastante con il diritto comunitario facevano tutte riferimento a fattispecie tra loro prive di un denominatore comune, che necessitavano di volta in volta il contemperamento della preservazione delle regole processuali nazionali con principi generali diversi: il principio del primato del diritto comunitario, il principio della competenze di attribuzione, il principio della certezza del diritto, il principio di leale cooperazione, il principio del legittimo affidamento, il principio del divieto dell’abuso del diritto, e non ultimo il principio di effettività.
La vasta eco sollevata dal precedente caso Lucchini (CGCE sentenza del 18 luglio 2007, Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato c. Lucchini Siderurgica Spa, causa C-119/05, in Raccolta, p. I-6199) in tema di aiuti di Stato ha creato grande attenzione da parte degli operatori del diritto che con curiosità attendevano che la Corte comunitaria si pronunciasse nuovamente sul delicato tema della valenza dell’art. 2909 c.c. rispetto all’applicazione delle regole comunitarie.
Il rinvio pregiudiziale sottoposto all’attenzione dei giudici di Lussemburgo è stato sollevato dalla Corte di cassazione nell’ambito di una controversia che vede contrapposte la Amministrazione dell’Economia e delle Finanze e la società Olimpiclub (fallita nelle more del giudizio interno).
Tra l’Olimpiclub srl, società proprietaria di un complesso di attrezzature sportive ubicate su un terreno di proprietà del demanio dello Stato, e l’Associazione Polisportiva Olimpiclub (i cui membri fondatori coincidevano pressoché tutti con i detentori delle quote sociali dell’Olimpiclub srl), era stato stipulato nel 1985 un contratto di comodato in virtù del quale la prima consentiva all’associazione di utilizzare tutte le attrezzature del complesso sportivo, e la seconda assumeva a proprio carico il pagamento del canone demaniale per la concessione in uso del terreno, il rimborso delle spese forfetarie annuali ed il trasferimento di tutte le sue entrate lorde consistenti nell’ammontare complessivo delle quote associative versate dai suoi soci (e quindi non soggette ad Iva).
Nel 1992, l’amministrazione fiscale dopo avere effettuato delle verifiche concernenti il suddetto contratto era giunta alla conclusione che le parti di tale accordo, mediante un atto formalmente lecito, avevano, in realtà, perseguito esclusivamente il fine di eludere l’obbligo impositivo attraverso il conseguimento di un indebito risparmio fiscale.
Avendo pertanto considerato che il contratto di comodato era inopponibile, l’amministrazione fiscale aveva attribuito all’Olimpiclub tutto il reddito lordo prodotto dall’Associazione durante gli anni oggetto del controllo fiscale e aveva rettificato, di conseguenza, con quattro avvisi di rettifica, le dichiarazioni dell’Iva presentate dall’Olimpiclub per le annualità fiscali 1988-1991.
La società aveva con successo proposto ricorso avverso tali avvisi di rettifica dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di primo grado; ed anche in appello la Commissione tributaria regionale del Lazio aveva confermato la liceità dell’accordo concluso valutando che vi fossero validi motivi economici che giustificavano la condotta tributaria perpetrata.
L’esito della controversia giunta dinnanzi alla Corte di cassazione è stato ribaltato sulla scorta della pronuncia pregiudiziale dei giudici di Lussemburgo che, come ben noto, è vincolante per il giudice interno.
La sentenza interpretativa ex art. 234 CE è scaturita dal rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte Suprema italiana giacché nell’ambito del procedimento di ultimo grado il Curatore del Fallimento Olimpiclub ha fatto valere due sentenze della Commissione tributaria regionale del Lazio passate in giudicato e aventi ad oggetto avvisi di rettifica in materia di Iva redatti in seguito al medesimo controllo fiscale riguardante la srl, ma concernenti altre annualità fiscali (1992 e 1987).
Secondo la difesa della società resistente anche se tali sentenze si riferivano a periodi d’imposta diversi, gli accertamenti ivi operati, nonché la soluzione adottata sarebbero diventati vincolanti nella causa principale, in virtù dell’art. 2909 c.c. che sancisce il principio dell’autorità di cosa giudicata.
Il Collegio giudicante per risolvere la controversia oggetto del contendere avendo rilevato il contrasto tra la norma sovranazionale (che pone il divieto delle pratiche abusive nel settore dell’Iva) e quella interna (che sancisce il principio della intangibilità della res iudicata) con ordinanza n. 26996 del 21 dicembre 2007 ha sollevato un rinvio pregiudiziale chiedendo ai giudici europei “se il diritto comunitario osti all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come quella di cui all’art. 2909 c.c., tesa a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, quando tale applicazione venga a consacrare un risultato che contrasta con il diritto comunitario, frustrandone l’appli-cazione, anche in settori diversi da quello degli aiuti di Stato (per cui, v. Lucchini s.p.a., cit.) e, segnatamente, in materia di Iva e di abuso di diritto posto in essere per conseguire indebiti risparmi d’imposta, avuto, in particolare, riguardo anche al criterio di diritto nazionale, così come interpretato dalla giurisprudenza di questa corte, secondo cui, nelle controversie tributarie, il giudicato esterno, qualora l’accertamento consacrato concerna un punto fondamentale comune ad altre cause, esplica, rispetto a questo, efficacia vincolante anche se formatosi in relazione ad un diverso periodo d’imposta”.
La Corte di giustizia di rimando ha statuito che: “Il diritto comunitario osta all’applicazione, in circostanze come quelle della causa principale, di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile, in una causa vertente sull’imposta sul valore aggiunto concernente un’annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva, in quanto essa impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche abusive legate a detta imposta”.
Le motivazioni addotte in sentenza meritano di essere illustrate ed approfondite: nello scenario giuridico nazionale si rileva che per lungo tempo nell’ordinamento italiano era prevalso in materia fiscale il c.d. principio della frammentazione dei giudicati, in base al quale ogni annualità fiscale avrebbe conservato la propria autonomia rispetto alle altre creando ogni anno tra il contribuente ed il fisco un rapporto giuridico distinto rispetto a quello delle annualità precedenti e successive; tuttavia tale impostazione sarebbe stata abbandonata a favore di una impostazione opposta protesa a far valere il principio dell’autorità della cosa giudicata che, applicata al caso di specie, avrebbe vincolato il giudice del rinvio alle su indicate sentenze della Commissione tributaria che attestavano in modo definitivo ed inoppugnabile il carattere lecito e non fraudolento del contratto di comodato.
L’approccio della Corte di Lussemburgo sembra ancora una volta rivolto a fornire al giudice a quo gli elementi per risolvere la causa pendente, piuttosto che ad enunciare un principio giurisprudenziale unitario suscettibile di applicazione generale.
Ed infatti i giudici europei, come ormai di prassi, hanno rammentato che il principio nazionale dell’autorità di cosa giudicata non è sminuito né eroso dal diritto comunitario in virtù della indiscussa importanza che esso riveste al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia.
Come già più volte ribadito nei precedenti Köbler e Kapferer (rispettivamente sentenza del 30 settembre 2003, causa C-224/01, Racc. p. I-10239, punto 38, e sentenza 16 marzo 2006, causa C-234/04, Racc. p. I-2585, punto 20), è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione. Si rimarca che non è un obiettivo preciso dell’ordinamento europeo quello di scalfire i capisaldi degli ordinamenti interni, né di avere una ingerenza tale da imporre ad un giudice nazionale di disapplicare tout court le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione.
Fatto salvo il principio dell’autonomia degli Stati in tema di regole di procedura (da coniugarsi sempre con il rispetto delle condizioni dettate dal principio di equivalenza e di principio di effettività), la Corte di giustizia ha ulteriormente chiarito che il riferimento operato dal giudice a quo al caso Lucchini, ed il dubbio se la massima ivi statuita potesse essere applicata anche alla controversia dell’Olimpiclub, è del tutto fuorviante giacché la fattispecie in esame non è assimilabile a quella rappresentata nel precedente citato: in quel caso si versava in una situazione del tutto particolare in cui il principio della res iudicata ha dovuto cedere in nome del rispetto del principio della ripartizione di competenze tra gli Stati membri e la Comunità in materia di aiuti di Stato (in particolare si ricorda che è la Commissione europea l’istituzione deputata ad avere una competenza esclusiva e diretta per esaminare la compatibilità di una misura nazionale di aiuti di Stato con il mercato comune); il fulcrum della controversia tra l’Olimpiclub ed il Fisco è, invece, la compatibilità tra il principio dell’autorità di cosa giudicata in materia fiscale (secondo cui, una volta intervenuta una sentenza passata in giudicato in una controversia tributaria instauratasi tra l’amministrazione ed uno soggetto passivo di Iva, questa, benché relativa ad un periodo d’imposta diverso da quello che costituisce l’oggetto del procedimento, può essere utilmente invocata in un’altra controversia contro lo stesso soggetto, precludendo così di fatto al giudice nazionale la possibilità di valutare se una data operazione imponibile ai fini Iva costituisca un comportamento abusivo nell’ambito del sistema comunitario armonizzato dell’imposta sul valore aggiunto) ed il principio di effettività.
La Corte passa, dunque, ad esaminare più in particolare se l’interpretazione soprammenzionata dell’art. 2909 c.c. possa essere giustificata alla luce della salvaguardia del principio del-la certezza del diritto, tenuto conto delle conseguenze che ne deriverebbero per l’applicazione del diritto comunitario: si osserva che la nuova interpretazione dell’art. 2909 c.c. applicata alla materia fiscale, non solo impedirebbe di rimettere in discussione una decisione giurisdizionale che abbia acquistato efficacia di giudicato, anche se tale decisione comportasse una violazione del diritto comunitario, ma soprattutto ostacolerebbe qualsiasi revisione degli esercizi fiscali concernente il medesimo contribuente o soggetto passivo quando la decisione definitiva si basasse su una interpretazione delle norme comunitarie che riguardassero pratiche abusive in materia di Iva in contrasto con il diritto comunitario.
Una siffatta applicazione del principio dell’autorità di cosa giudicata avrebbe dunque la conseguenza che, laddove la decisione giurisdizionale divenuta definitiva fosse fondata su un’interpretazione delle norme comunitarie relative a pratiche abusive in materia fiscale in contrasto con il diritto comunitario, la non corretta applicazione di tali regole si riprodurrebbe per ciascun nuovo esercizio fiscale, senza che fosse possibile correggere tale erronea interpretazione.
La Corte, quindi, conclude che il contrasto tra un provvedimento nazionale definito in materia fiscale ed una norma comunitaria debba risolversi utilizzando non il criterio primato del diritto comunitario (così come, invece, supponeva la Corte di cassazione), ma utilizzando il criterio della effettività: gli ostacoli su illustrati all’applicazione effettiva delle norme comunitarie in materia di Iva non possono essere ragionevolmente giustificati dal principio della certezza del diritto e devono essere dunque considerati in contrasto con il principio di effettività.
La soluzione adottata nel caso di specie, ancora una volta, non permette di enunciare un principio giurisprudenziale unitario in tema di rapporti tra il diritto comunitario e gli atti nazionali divenuti definitivi: come indicato dall’Avvocato Generale nelle conclusioni presentate nel marzo 2009, l’analisi della giurisprudenza pregressa in argomento non lascerebbe emergere, diversamente dal quanto suggerito dal giudice del rinvio, una tendenza generale della giurisprudenza della Corte ad erodere o ad attenuare il principio della cosa giudicata. La Corte comunitaria continua, invece, ad assumere un case by case approach, finalizzato a fornire al giudice nazionale gli elementi utili per la soluzione del caso concreto.
E se da un lato nel complesso ne risulta un quadro giurisprudenziale necessariamente frammentato ed incerto, è anche vero che le pronunce in cui la Corte ha affrontato la questione dei rapporti tra res iudicata nazionale (o decisione amministrativa nazionale definitiva) contrastante con il diritto comunitario facevano tutte riferimento a fattispecie tra loro prive di un denominatore comune, che necessitavano di volta in volta il contemperamento della preservazione delle regole processuali nazionali con principi generali diversi: il principio del primato del diritto comunitario, il principio della competenze di attribuzione, il principio della certezza del diritto, il principio di leale cooperazione, il principio del legittimo affidamento, il principio del divieto dell’abuso del diritto, e non ultimo il principio di effettività.