L'AMBITO DI APPLICAZIONE DELL'ACCORDO TRIPs NELL'INTERPRETAZIONE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA
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Con
sentenza 16 novembre 2004 in causa C-245/02 la Corte di giustizia si è
pronunciata nuovamente sull’interpretazione dell’accordo TRIPs e sul suo
ambito di applicazione ratione temporis e ratione materiae all’interno
della Comunità europea.
La controversia de qua si inserisce nel più ampio contenzioso sviluppatosi, per oltre mezzo secolo e in diversi Paesi, tra la società americana Anheuser-Busch e la birreria ceca Budìjovický Budvar (di seguito «Budvar») in merito al diritto di utilizzare i termini «Bud», «Budweiser» e simili per la commercializzazione e la promozione delle rispettive birre. La vicenda principale data intorno al 1870, quando la società Anheuser-Busch iniziò a produrre birra a St. Louis (Missouri) con il marchio «Budweiser» con gli stessi ingredienti e secondo il metodo tipico della omonima bevanda prodotta nella città boema di Ceské Budijovice (detta anche Budweis ceca). Dato il successo cui la birra Budweiser americana andò subito incontro negli Stati Uniti, la Anheuser-Busch stipulò una serie di accordi con la Cesky Akciovy pivovar (detta anche Burgerliches Brauhaus, predecessore della Budvar) – con sede nella città di Budweis e titolare “storico” dei diritti sul medesimo marchio nel mercato europeo e in altri Paesi – in ordine alla ripartizione territoriale dell’uso della parola Budweiser: mentre un primo accordo prevedeva la possibilità per la società americana di commercializzare in tutto il mondo (tranne che in Europa) in regime di concorrenza con la birreria ceca, successivamente si convenne di attribuire l’uso esclusivo del marchio negli Stati Uniti in capo alla Anheuser-Busch e in Europa alla Budvar. Nel secondo dopoguerra, tuttavia, la Anheuser-Busch per ragioni di crescita economica (ed in presenza dei nuovi divieti nazionali sulla spartizione dei mercati) iniziò a espandersi anche nel vecchio continente, causando l’inizio di un conflitto commerciale tuttora non definitivamente risolto. In particolare la società americana decideva di perseguire l’omologa ceca in ogni Paese in cui quest’ultima aveva registrato i marchi «Budweiser» e «Bud» o usava indicare sulle etichette la ditta di provenienza recante gli stessi nomi, e ciò sulla base o di registrazioni anteriori (ove possibili) o di un’allegata notorietà del marchio come indicatore di provenienza della birra americana.
La presente pronuncia appartiene al filone finlandese del conflitto. La Budvar – che nel 1967 aveva iscritto la propria ditta «Budweiser Budvar» nel registro del commercio cecoslovacco in lingua ceca, inglese e francese – era titolare in Finlandia dei marchi «Budvar» e «Budweiser Budvar» (registrati tra il maggio 1962 e il novembre 1972) ma i giudici di quel Paese nel 1984 l’avevano dichiarata decaduta da tali diritti per mancato utilizzo; subito dopo, tra il giugno 1985 e l’agosto 1992, la rivale Anheuser-Busch otteneva la registrazione dei marchi «Budweiser», «Bud», «Bud Light» e «Budweiser King of Beers».
L’11 ottobre 1996 la Anheuser-Busch adiva l’Helsingin Käräjäoikeus (Tribunale di primo grado di Helsinki) chiedendo che fosse fatto divieto alla Budvar di mantenere o rinnovare l’uso nel territorio finlandese dei marchi «Budìjovický Budvar», «Budweiser Budvar», «Budweiser», «Budweis», «Budvar», «Bud» e «Budweiser Budbraü» quali segni per la commercializzazione e la vendita di birra, e che si sopprimessero in generale tutte le denominazioni incompatibili con tale divieto. La società americana sosteneva da un lato che ai sensi della Tavaramerkkilaki (legge sui marchi) l’utilizzo dei predetti segni da parte della Budvar era in grado di ingenerare confusione con i propri marchi registrati in quanto relativi a merci identiche o simili, e dall’altro che il medesimo pericolo di confusione risultava dall’indicazione della ditta «Budweiser Budvar» in lingua ceca o nelle sue traduzioni inglese e francese, secondo quanto previsto invece dalla Toiminimilaki (legge sulle ditte). Dal canto suo la Budvar, oltre ad eccepire una generale mancanza di pericolo di confusione in riferimento ai marchi, sosteneva che il fatto di essere stato registrato in Cecoslovacchia il segno «Budweiser Budvar» nel 1967 come nome di ditta nelle tre lingue ceca, inglese e francese le avrebbe conferito – ai sensi della Convenzione di Parigi di cui sia la Cecoslovacchia che la Finlandia erano parte – un diritto anteriore rispetto ai marchi registrati dalla Anheuser-Busch, considerando anche il soddisfacimento dell’ulteriore requisito della “generale conoscenza della ditta nel settore economico rilevante” richiesto dall’art. 2, n. 3, della Toiminimilaki.
L’art. 8 della Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale, firmata il 20 marzo 1883 e successivamente modificata, dispone infatti che una volta acquisito il diritto sul “nome commerciale” in un Paese membro esso è protetto in tutti gli altri Paesi membri senza obblighi di deposito o di registrazione, e ciò anche nel caso in cui non costituisca marchio di fabbrica o di commercio in senso stretto.
Nell’ottobre 1998 l’Helsingin Käräjäoikeus concludeva che le etichette della Budvar erano talmente diverse dai marchi registrati della società americana da non ingenerare alcun pericolo di confusione, e inoltre che il segno «Budweiser Budvar» era usato non come marchio ma come semplice menzione della ditta, per cui era tutelato in Finlandia in quanto già noto agli operatori del settore al momento della registrazione da parte della Anheuser-Busch. Ribaltando parzialmente la sentenza di primo grado, nel giugno 2000 l’Helsingin Hovioikeus (Corte d’appello di Helsinki) statuiva viceversa come la predetta notorietà del segno «Budweiser Budvar» non fosse stata sufficientemente dimostrata, ragion per cui per cui non rientrava nell’art. 2, n. 3, della Toiminimilaki e non poteva godere della protezione dell’art. 8 della Convenzione di Parigi.
Entrambe le società impugnavano innanzi alla Korkein Oikeus (Corte suprema), la quale giudicando rilevante per la so-luzione del caso l’art. 16 dell’Accordo TRIPs – l’«Accordo sugli aspetti della proprietà intellettuale attinenti al commercio» che figura come allegato 1C dell’«Accordo che istituisce l’Organizzazione mondiale del commercio», entrato in vigore per la Comunità (e quindi anche per la Finlandia) il 1 gennaio 1996 e diretto a predisporre uno standard minimo di tutela sostanziale e processuale in materia di proprietà intellettuale su scala mondiale – sottoponeva al giudice comunitario ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE una serie di questioni. Innanzitutto, 1) qualora il conflitto tra un marchio commerciale e un segno che si assumeva violare il suddetto marchio fosse avvenuto in un momento anteriore all'entrata in vigore dell’Accordo TRIPs, se le disposizioni del medesimo accordo si applicassero alla questione della priorità del fondamento legale di uno dei due diritti ove l'asserita violazione del diritto di marchio commerciale fosse continuata oltre la data di entrata in vigore dell’Accordo TRIPs; in caso di risposta affermativa al primo quesito, 2) se e a quali condizioni una ditta potesse essere considerata un segno distintivo di beni o servizi ex art. 16, n. 1, TRIPs; infine, in caso di soluzione affermativa anche del secondo quesito, 3) se e a quali condizioni una ditta non registrata né usata nello Stato in cui viceversa un marchio confliggente sia stato registrato possa essere considerato un diritto anteriore ai sensi dell’art. 16, n. 1, terza frase, TRIPs, in combinato disposto con la previsione dell’art. 8 della Convenzione di Parigi.
* * *
La Corte, dovendo innanzitutto statuire sulla ricevibilità del ricorso, ha avuto modo di ribadire la propria competenza ad interpretare gli accordi OMC, e il TRIPs in particolare, anche relativamente alle materie non rientranti nella competenza comunitaria esclusiva ai sensi del parere 1/94 del 15 novembre 1994.
Com’è noto il problema derivava dall’aver stipulato gli accordi commerciali del 1994 in forma c.d. “mista” (ovvero a firma congiunta da parte della Comunità e degli Stati membri), e dalla conseguente necessità di individuare il soggetto competente ad interpretare detti accordi, non solo per evitare difformità ma anche in considerazione della responsabilità solidale della Comunità nei confronti degli Stati terzi. Poiché infatti da un lato gli accordi OMC non facevano alcun riferimento a suddetta ripartizione di competenze considerandola questione puramente interna, e dall’altro il parere 1/94 non prevedeva nulla in merito limitandosi al profilo della stipulazione, la questione della possibilità per il giudice comunitario di interpretare anche le materie OMC di competenza concorrente – nella fattispecie, le norme dell’Accordo TRIPs – è stata risolta nelle note sentenze Hermès International e Dior (rispettivamente 16 giugno 1998, causa C-53/96, e 14 dicembre 2000, cause riunite C-300/98 e C-392/98).
In entrambe le controversie la Corte era chiamata a interpretare l’art. 50 TRIPs (che riguarda le misure cautelari a tutela delle norme sostanziali che i membri dell’OMC devono introdurre nei rispettivi ordinamenti), e se nella sentenza Hermès International essa fondava il proprio ragionamento sugli elementi specifici del caso in esame e riteneva pertanto di avere competenza in quanto la Comunità aveva già legiferato in materia nel Regolamento n. 40/94 sul marchio comunitario (secondo il noto principio del parallelismo tra competenze interne e competenze esterne), nella successiva pronuncia Dior veniva chiarito un obbligo generale per il giudice nazionale di sottoporre alla Corte le pertinenti questioni pregiudiziali al fine di salvaguardare l’uniformità di interpretazione dell’Accordo TRIPs (e più in generale degli accordi OMC) nell’intero territorio comunitario. Peraltro, come affermato da ultimo nella sentenza Heidelberger Bauchemie (24 giugno 2004, causa C-49/02), la Corte ha ritenuto di dover interpretare anche la propria normativa in materia di marchi nella misura del possibile alla luce della lettera e delle finalità del predetto accordo, e poiché tale normativa incide su quella nazionale, è di tutta evidenza l’opportunità del controllo compiuto da un unico organo sia per le situazioni “nazionali” che per quelle “comunitarie”.
Da tutto ciò, pertanto, il giudice comunitario ha ricavato la propria competenza ad interpretare anche una disposizione di diritto sostanziale come l’art. 16 TRIPs, negando che la pretesa inapplicabilità ratione temporis e ratione materiae – secondo l’obiezione avanzata dalla società americana – implicasse la propria incompetenza interpretativa (e quindi l’irricevibilità del ricorso) ma viceversa considerando l’affermazione di detta competenza il presupposto per valutare l’applicazione in concreto della normativa internazionale in materia di proprietà intellettuale alla controversia nazionale.
Per quanto riguarda il profilo dell’applicabilità ratione temporis, oggetto del primo quesito, la Corte richiama la giurisprudenza Schieving-Nijstad (13 settembre 2001, causa C-89/99) per ribadire come la violazione di un marchio iniziata prima della data di applicazione dell’Accordo non postuli necessariamente l’inapplicabilità dello stesso.
In quella occasione aveva infatti affermato l’obbligo per il giudice a quo di interpretare le norme processuali nazionali in materia di provvedimenti cautelari sul marchio per quanto possibile alla luce della lettera e dello spirito dell’art. 50 TRIPs, e ciò in quanto alla data in cui – a seguito della misura cautelare – gli atti contestati erano cessati (ovvero, il 9 gennaio 1996) l’Accordo TRIPs era già entrato in vigore per la Comunità e gli Stati membri.
In effetti se l’art. 70, n. 1, TRIPs dispone che «il presente accordo non crea obblighi in relazione ad atti che hanno avuto luogo prima della data di applicazione dell’accordo per il membro in questione», il successivo n. 2 prevede viceversa che «…crea obblighi in relazione a tutti gli oggetti esistenti alla data della sua applicazione…e che sono protetti…a tale data o che sono o saranno successivamente conformi ai criteri di protezione…». Come chiarito dall’Organo di appello OMC il 18 settembre 2000 nel caso Canada – Term of Patent Protection (WT/DS170/AB/R), l’art. 70, n. 1, rende inapplicabile l’Accordo TRIPs unicamente agli atti iniziati ed esauritisi prima dell’entrata in vigore per il membro in questione, mentre il n. 2 ha l’effetto di non escludere detta applicazione per le situazioni iniziate prima ma i cui effetti si protraggono oltre quella data.
Poiché gli atti addebitati alla Budvar in Finlandia avevano sicuramente avuto inizio prima della data di applicazione dell’Accordo TRIPs ma erano proseguiti oltre il 1 gennaio 1996, e poiché il procedimento iniziato l’11 ottobre 1996 aveva ad oggetto la violazione di segni tutelati come marchi alla medesima data di entrata in vigore, la Corte ha concluso nel senso dell’applicabilità ratione temporis della normativa internazionale alla controversia di specie.
Prima di affrontare il secondo e il terzo quesito, il giudice comunitario ha ribadito il proprio orientamento negativo sulla possibilità che le disposizioni degli accordi OMC siano dotate di effetto diretto (cioè possano fungere da parametro di legittimità degli atti comunitari ex art. 230 CE e siano idonee a creare in capo ai singoli diritti invocabili direttamente innanzi ai giudici nazionali). Tuttavia, per quanto riguarda l’Accordo TRIPs, la Corte ha ricordato secondo la giurisprudenza Dior che, quando le giurisdizioni nazionali devono applicare le proprie norme processuali per disporre misure a tutela di diritti rientranti in un settore di competenza di quell’accordo, gli stessi giudici devono farlo alla luce del testo e delle finalità delle pertinenti disposizioni normative sia internazionali che comunitarie: se questa soluzione valeva allora per norme di procedura che non erano (né tuttora sono) oggetto di armonizzazione comunitaria, sembra ancor più corretta adesso in riferimento a norme sostanziali che sono state oggetto viceversa di armonizzazione con la direttiva 89/104/CEE. A fronte della doppia verifica condotta dalla Corte, nel prosieguo si cercherà di affrontare unicamente gli aspetti della pronuncia relativi all’Accordo TRIPs. Con la soluzione ai due successivi quesiti la Corte traccia un quadro abbastanza chiaro in merito all’ambito di applicazione ratione materiae delle norme sul diritto di marchio dell’Accordo TRIPs.
L’Avvocato generale aveva sostenuto come funzione essenziale del “marchio” fosse quella di contraddistinguere determinati prodotti da altri della stessa specie in modo da garantire ai consumatori la provenienza degli stessi, mentre la “ditta” aveva il diverso compito di identificare un’impresa: mancando in linea di principio un rischio di confusione, questo poteva viceversa sorgere nel caso in cui l’indicazione della seconda fosse usata in concreto per le finalità del primo.
La Corte si è attenuta a tali premesse e, riprendendo la pronuncia dell’Organo di appello OMC nel caso Havana Club (2 gennaio 2002, United States – Section 211 Omnibus Appropriations Act of 1988, WT/DS/176/AB/R), ha ricordato per un verso come l’art. 16 TRIPs conferisca al titolare di un marchio registrato un livello minimo di diritti esclusivi su scala internazionale che tutti i membri OMC devono tutelare nei rispettivi ordinamenti, in particolare avverso i pregiudizi causati da terzi non autorizzati, mentre per altro verso come ai sensi dell’art. 15 TRIPs qualsiasi segno o combinazione di segni in funzione distintiva possa costituire un marchio d’impresa e godere quindi dei diritti minimi di cui sopra.
Dal combinato disposto delle due norme ha affermato l’applicabilità dell’Accordo TRIPs al caso di specie, ricavandone l’obbligo di interpretare le disposizioni nazionali sui marchi in modo da consentire al legittimo titolare l’esercizio dei diritti ex art. 16 TRIPs avverso qualunque segno usato in funzione di marchio capace di pregiudicare la funzione essenziale dello stesso, che è quella di garantire ai consumatori la provenienza del prodotto. Tale interpretazione risulta a fortiori conforme al-lo spirito dell’Accordo TRIPs in quanto individua il punto di equilibrio tra le diverse (e a volte opposte) esigenze di liberalizzazione degli scambi e di protezione della proprietà intellettuale: poiché quest’ultima è presupposto per l’esercizio di uno ius excludendi alios (e quindi per natura capace di impedire il libero scambio), il giudice nazionale avrà l’obbligo di verificare attentamente le condizioni di cui all’art. 16 TRIPs – ovvero che il segno che si pretende in violazione del marchio sia usato “nel commercio” e “per prodotti identici o simili” –, e solo a seguito del soddisfacimento di queste gli sarà possibile applicare il contenuto materiale di tale norma.
Tuttavia, questa è condizione necessaria ma non sufficiente. La Corte prosegue affermando l’obbligo per il giudice nazionale di verificare inoltre la contestuale inapplicabilità delle eccezioni previste dall’art. 17 TRIPs al caso di specie: quest’ultimo dispone che i Membri possano prevedere limitate eccezioni ai diritti di marchio, come il leale uso di termini descrittivi, purché si tenga conto dei legittimi interessi del titolare del marchio stesso e dei terzi. In particolare, poiché il terzo potrebbe usare un segno identico o simile ad un marchio registrato – ad esempio, il proprio nome o indirizzo – senza per questo ricadere nel divieto ex art. 16 TRIPs, la sentenza in esame ne ricava la necessità di valutare non solo in che maniera l’uso della ditta verrebbe inteso dai consumatori nonché il grado di rinomanza del marchio che si assume violato (in modo da escludere o meno forme di agganciamento parassitario), ma anche il livello di consapevolezza del terzo affinché sia soddisfatto il requisito dell’uso in buona fede.
In conclusione, la Corte ha affermato che, nel valutare se una ditta rappresenti un segno ai sensi dell’art. 16 TRIPs ed il cui uso possa quindi essere legittimamente vietato dal titolare di un marchio registrato, il giudice nazionale dovrà procedere ad un esame globale di tutte le circostanze pertinenti (in primis, l’etichettatura delle bottiglie) al fine di verificare se si ricada nell’ipotesi di cui all’art. 17 TRIPs o viceversa ci si trovi sub art. 16 TRIPs in presenza di forme di concorrenza sleale in danno del legittimo titolare del marchio registrato.
Con la soluzione al terzo quesito, la Corte ha avuto modo di svolgere ulteriori riflessioni sulla norma di chiusura di cui all’art. 16, n. 1, ultima frase, TRIPs, in cui si prevede che i diritti elencati immediatamente prima non sono capaci di pregiudicare eventuali diritti anteriori. In presenza di una formulazione non molto chiara, l’interpretazione più ragionevole è quella che mira a evitare che al titolare di un diritto rientrante nell’ambito di applicazione dell’Accordo TRIPs – diritto utilizzato in funzione di marchio e sorto prima di quello relativo al marchio registrato con cui si assume in conflitto – sia vietato l’uso di quello in base all’art. 16, n. 1, TRIPs.
Poiché il giudice a quo chiedeva se una ditta non registrata né tradizionalmente usata nello Stato di registrazione del marchio potesse essere considerata un diritto anteriore (e il cui uso quindi non fosse vietato dall’art. 16, n. 1, TRIPs), la Corte ha subordinato la risposta affermativa al fatto che anche la ditta rientri ratione materiae e ratione temporis nell’Accordo TRIPs.
Per quanto riguarda il primo profilo, la Corte si è giustamente attenuta a quanto stabilito nel caso Havana Club: in quell’occasione e a differenza dell’Organo di primo grado – il quale aveva erroneamente ritenuto che né l’art. 1, n. 2, TRIPs (che delimita mediante rinvio alle sezioni successive l’ambito ratione materiae dell’Accordo) né il successivo art. 2, n. 1 (operante un rinvio recettizio agli artt. da 1 a 12 e all’art. 19 della Conven-zione di Parigi) annoverassero la protezione della ditta nell’ambito materiale dell’Accordo –, l’Organo di appello ha viceversa affermato tale inclusione soprattutto sulla scorta del fatto che l’unica materia oggetto di disciplina nell’art. 8 della suddetta Convenzione è proprio la ditta. Di conseguenza, la Corte ha affermato come anche ai fini del diritto comunitario la tutela della ditta rientri nell’ambito di applicazione materiale dell’Accordo TRIPs.
In riferimento al soddisfacimento della seconda condizione, il giudice comunitario ha infine sottolineato come una ditta possa essere considerata un “diritto esistente” se rientra nell’ambito di applicazione temporale dell’Accordo TRIPs ed è anteriore al marchio registrato nel momento in cui entra in conflitto con quest’ultimo. In merito al primo punto la Corte ha affermato che, anche se l’art. 8 della Convenzione di Parigi – e quindi l’Accordo TRIPs – dispone che la tutela della ditta non possa essere subordinata ad alcuna registrazione nello Stato in cui si chiede la protezione, nulla nei due strumenti convenzionali impedisce tuttavia che uno Stato possa legittimamente imporre condizioni relative ad un uso minimo e/o una conoscenza minima nel proprio territorio, ragion per cui il requisito di cui all’art. 2, n. 3, della Toiminimilaki non appariva in contrasto con gli strumenti internazionali. Relativamente alla nozione di anteriorità, poi, ha ribadito che il fondamento della ditta deve precedere nel tempo l’ottenimento del marchio (espressione peraltro del generale principio della prevalenza del titolo di esclusiva anteriore, cardine dell’intero diritto della proprietà intellettuale). Spettava quindi al giudice nazionale appurare in concreto la sussistenza o meno di detti requisiti.
Resta brevemente da dire che il ragionamento della Corte appare decisamente corretto sul piano logico-giuridico nonché conforme ai principi generali in materia di proprietà intellettuale.
La controversia de qua si inserisce nel più ampio contenzioso sviluppatosi, per oltre mezzo secolo e in diversi Paesi, tra la società americana Anheuser-Busch e la birreria ceca Budìjovický Budvar (di seguito «Budvar») in merito al diritto di utilizzare i termini «Bud», «Budweiser» e simili per la commercializzazione e la promozione delle rispettive birre. La vicenda principale data intorno al 1870, quando la società Anheuser-Busch iniziò a produrre birra a St. Louis (Missouri) con il marchio «Budweiser» con gli stessi ingredienti e secondo il metodo tipico della omonima bevanda prodotta nella città boema di Ceské Budijovice (detta anche Budweis ceca). Dato il successo cui la birra Budweiser americana andò subito incontro negli Stati Uniti, la Anheuser-Busch stipulò una serie di accordi con la Cesky Akciovy pivovar (detta anche Burgerliches Brauhaus, predecessore della Budvar) – con sede nella città di Budweis e titolare “storico” dei diritti sul medesimo marchio nel mercato europeo e in altri Paesi – in ordine alla ripartizione territoriale dell’uso della parola Budweiser: mentre un primo accordo prevedeva la possibilità per la società americana di commercializzare in tutto il mondo (tranne che in Europa) in regime di concorrenza con la birreria ceca, successivamente si convenne di attribuire l’uso esclusivo del marchio negli Stati Uniti in capo alla Anheuser-Busch e in Europa alla Budvar. Nel secondo dopoguerra, tuttavia, la Anheuser-Busch per ragioni di crescita economica (ed in presenza dei nuovi divieti nazionali sulla spartizione dei mercati) iniziò a espandersi anche nel vecchio continente, causando l’inizio di un conflitto commerciale tuttora non definitivamente risolto. In particolare la società americana decideva di perseguire l’omologa ceca in ogni Paese in cui quest’ultima aveva registrato i marchi «Budweiser» e «Bud» o usava indicare sulle etichette la ditta di provenienza recante gli stessi nomi, e ciò sulla base o di registrazioni anteriori (ove possibili) o di un’allegata notorietà del marchio come indicatore di provenienza della birra americana.
La presente pronuncia appartiene al filone finlandese del conflitto. La Budvar – che nel 1967 aveva iscritto la propria ditta «Budweiser Budvar» nel registro del commercio cecoslovacco in lingua ceca, inglese e francese – era titolare in Finlandia dei marchi «Budvar» e «Budweiser Budvar» (registrati tra il maggio 1962 e il novembre 1972) ma i giudici di quel Paese nel 1984 l’avevano dichiarata decaduta da tali diritti per mancato utilizzo; subito dopo, tra il giugno 1985 e l’agosto 1992, la rivale Anheuser-Busch otteneva la registrazione dei marchi «Budweiser», «Bud», «Bud Light» e «Budweiser King of Beers».
L’11 ottobre 1996 la Anheuser-Busch adiva l’Helsingin Käräjäoikeus (Tribunale di primo grado di Helsinki) chiedendo che fosse fatto divieto alla Budvar di mantenere o rinnovare l’uso nel territorio finlandese dei marchi «Budìjovický Budvar», «Budweiser Budvar», «Budweiser», «Budweis», «Budvar», «Bud» e «Budweiser Budbraü» quali segni per la commercializzazione e la vendita di birra, e che si sopprimessero in generale tutte le denominazioni incompatibili con tale divieto. La società americana sosteneva da un lato che ai sensi della Tavaramerkkilaki (legge sui marchi) l’utilizzo dei predetti segni da parte della Budvar era in grado di ingenerare confusione con i propri marchi registrati in quanto relativi a merci identiche o simili, e dall’altro che il medesimo pericolo di confusione risultava dall’indicazione della ditta «Budweiser Budvar» in lingua ceca o nelle sue traduzioni inglese e francese, secondo quanto previsto invece dalla Toiminimilaki (legge sulle ditte). Dal canto suo la Budvar, oltre ad eccepire una generale mancanza di pericolo di confusione in riferimento ai marchi, sosteneva che il fatto di essere stato registrato in Cecoslovacchia il segno «Budweiser Budvar» nel 1967 come nome di ditta nelle tre lingue ceca, inglese e francese le avrebbe conferito – ai sensi della Convenzione di Parigi di cui sia la Cecoslovacchia che la Finlandia erano parte – un diritto anteriore rispetto ai marchi registrati dalla Anheuser-Busch, considerando anche il soddisfacimento dell’ulteriore requisito della “generale conoscenza della ditta nel settore economico rilevante” richiesto dall’art. 2, n. 3, della Toiminimilaki.
L’art. 8 della Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale, firmata il 20 marzo 1883 e successivamente modificata, dispone infatti che una volta acquisito il diritto sul “nome commerciale” in un Paese membro esso è protetto in tutti gli altri Paesi membri senza obblighi di deposito o di registrazione, e ciò anche nel caso in cui non costituisca marchio di fabbrica o di commercio in senso stretto.
Nell’ottobre 1998 l’Helsingin Käräjäoikeus concludeva che le etichette della Budvar erano talmente diverse dai marchi registrati della società americana da non ingenerare alcun pericolo di confusione, e inoltre che il segno «Budweiser Budvar» era usato non come marchio ma come semplice menzione della ditta, per cui era tutelato in Finlandia in quanto già noto agli operatori del settore al momento della registrazione da parte della Anheuser-Busch. Ribaltando parzialmente la sentenza di primo grado, nel giugno 2000 l’Helsingin Hovioikeus (Corte d’appello di Helsinki) statuiva viceversa come la predetta notorietà del segno «Budweiser Budvar» non fosse stata sufficientemente dimostrata, ragion per cui per cui non rientrava nell’art. 2, n. 3, della Toiminimilaki e non poteva godere della protezione dell’art. 8 della Convenzione di Parigi.
Entrambe le società impugnavano innanzi alla Korkein Oikeus (Corte suprema), la quale giudicando rilevante per la so-luzione del caso l’art. 16 dell’Accordo TRIPs – l’«Accordo sugli aspetti della proprietà intellettuale attinenti al commercio» che figura come allegato 1C dell’«Accordo che istituisce l’Organizzazione mondiale del commercio», entrato in vigore per la Comunità (e quindi anche per la Finlandia) il 1 gennaio 1996 e diretto a predisporre uno standard minimo di tutela sostanziale e processuale in materia di proprietà intellettuale su scala mondiale – sottoponeva al giudice comunitario ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE una serie di questioni. Innanzitutto, 1) qualora il conflitto tra un marchio commerciale e un segno che si assumeva violare il suddetto marchio fosse avvenuto in un momento anteriore all'entrata in vigore dell’Accordo TRIPs, se le disposizioni del medesimo accordo si applicassero alla questione della priorità del fondamento legale di uno dei due diritti ove l'asserita violazione del diritto di marchio commerciale fosse continuata oltre la data di entrata in vigore dell’Accordo TRIPs; in caso di risposta affermativa al primo quesito, 2) se e a quali condizioni una ditta potesse essere considerata un segno distintivo di beni o servizi ex art. 16, n. 1, TRIPs; infine, in caso di soluzione affermativa anche del secondo quesito, 3) se e a quali condizioni una ditta non registrata né usata nello Stato in cui viceversa un marchio confliggente sia stato registrato possa essere considerato un diritto anteriore ai sensi dell’art. 16, n. 1, terza frase, TRIPs, in combinato disposto con la previsione dell’art. 8 della Convenzione di Parigi.
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La Corte, dovendo innanzitutto statuire sulla ricevibilità del ricorso, ha avuto modo di ribadire la propria competenza ad interpretare gli accordi OMC, e il TRIPs in particolare, anche relativamente alle materie non rientranti nella competenza comunitaria esclusiva ai sensi del parere 1/94 del 15 novembre 1994.
Com’è noto il problema derivava dall’aver stipulato gli accordi commerciali del 1994 in forma c.d. “mista” (ovvero a firma congiunta da parte della Comunità e degli Stati membri), e dalla conseguente necessità di individuare il soggetto competente ad interpretare detti accordi, non solo per evitare difformità ma anche in considerazione della responsabilità solidale della Comunità nei confronti degli Stati terzi. Poiché infatti da un lato gli accordi OMC non facevano alcun riferimento a suddetta ripartizione di competenze considerandola questione puramente interna, e dall’altro il parere 1/94 non prevedeva nulla in merito limitandosi al profilo della stipulazione, la questione della possibilità per il giudice comunitario di interpretare anche le materie OMC di competenza concorrente – nella fattispecie, le norme dell’Accordo TRIPs – è stata risolta nelle note sentenze Hermès International e Dior (rispettivamente 16 giugno 1998, causa C-53/96, e 14 dicembre 2000, cause riunite C-300/98 e C-392/98).
In entrambe le controversie la Corte era chiamata a interpretare l’art. 50 TRIPs (che riguarda le misure cautelari a tutela delle norme sostanziali che i membri dell’OMC devono introdurre nei rispettivi ordinamenti), e se nella sentenza Hermès International essa fondava il proprio ragionamento sugli elementi specifici del caso in esame e riteneva pertanto di avere competenza in quanto la Comunità aveva già legiferato in materia nel Regolamento n. 40/94 sul marchio comunitario (secondo il noto principio del parallelismo tra competenze interne e competenze esterne), nella successiva pronuncia Dior veniva chiarito un obbligo generale per il giudice nazionale di sottoporre alla Corte le pertinenti questioni pregiudiziali al fine di salvaguardare l’uniformità di interpretazione dell’Accordo TRIPs (e più in generale degli accordi OMC) nell’intero territorio comunitario. Peraltro, come affermato da ultimo nella sentenza Heidelberger Bauchemie (24 giugno 2004, causa C-49/02), la Corte ha ritenuto di dover interpretare anche la propria normativa in materia di marchi nella misura del possibile alla luce della lettera e delle finalità del predetto accordo, e poiché tale normativa incide su quella nazionale, è di tutta evidenza l’opportunità del controllo compiuto da un unico organo sia per le situazioni “nazionali” che per quelle “comunitarie”.
Da tutto ciò, pertanto, il giudice comunitario ha ricavato la propria competenza ad interpretare anche una disposizione di diritto sostanziale come l’art. 16 TRIPs, negando che la pretesa inapplicabilità ratione temporis e ratione materiae – secondo l’obiezione avanzata dalla società americana – implicasse la propria incompetenza interpretativa (e quindi l’irricevibilità del ricorso) ma viceversa considerando l’affermazione di detta competenza il presupposto per valutare l’applicazione in concreto della normativa internazionale in materia di proprietà intellettuale alla controversia nazionale.
Per quanto riguarda il profilo dell’applicabilità ratione temporis, oggetto del primo quesito, la Corte richiama la giurisprudenza Schieving-Nijstad (13 settembre 2001, causa C-89/99) per ribadire come la violazione di un marchio iniziata prima della data di applicazione dell’Accordo non postuli necessariamente l’inapplicabilità dello stesso.
In quella occasione aveva infatti affermato l’obbligo per il giudice a quo di interpretare le norme processuali nazionali in materia di provvedimenti cautelari sul marchio per quanto possibile alla luce della lettera e dello spirito dell’art. 50 TRIPs, e ciò in quanto alla data in cui – a seguito della misura cautelare – gli atti contestati erano cessati (ovvero, il 9 gennaio 1996) l’Accordo TRIPs era già entrato in vigore per la Comunità e gli Stati membri.
In effetti se l’art. 70, n. 1, TRIPs dispone che «il presente accordo non crea obblighi in relazione ad atti che hanno avuto luogo prima della data di applicazione dell’accordo per il membro in questione», il successivo n. 2 prevede viceversa che «…crea obblighi in relazione a tutti gli oggetti esistenti alla data della sua applicazione…e che sono protetti…a tale data o che sono o saranno successivamente conformi ai criteri di protezione…». Come chiarito dall’Organo di appello OMC il 18 settembre 2000 nel caso Canada – Term of Patent Protection (WT/DS170/AB/R), l’art. 70, n. 1, rende inapplicabile l’Accordo TRIPs unicamente agli atti iniziati ed esauritisi prima dell’entrata in vigore per il membro in questione, mentre il n. 2 ha l’effetto di non escludere detta applicazione per le situazioni iniziate prima ma i cui effetti si protraggono oltre quella data.
Poiché gli atti addebitati alla Budvar in Finlandia avevano sicuramente avuto inizio prima della data di applicazione dell’Accordo TRIPs ma erano proseguiti oltre il 1 gennaio 1996, e poiché il procedimento iniziato l’11 ottobre 1996 aveva ad oggetto la violazione di segni tutelati come marchi alla medesima data di entrata in vigore, la Corte ha concluso nel senso dell’applicabilità ratione temporis della normativa internazionale alla controversia di specie.
Prima di affrontare il secondo e il terzo quesito, il giudice comunitario ha ribadito il proprio orientamento negativo sulla possibilità che le disposizioni degli accordi OMC siano dotate di effetto diretto (cioè possano fungere da parametro di legittimità degli atti comunitari ex art. 230 CE e siano idonee a creare in capo ai singoli diritti invocabili direttamente innanzi ai giudici nazionali). Tuttavia, per quanto riguarda l’Accordo TRIPs, la Corte ha ricordato secondo la giurisprudenza Dior che, quando le giurisdizioni nazionali devono applicare le proprie norme processuali per disporre misure a tutela di diritti rientranti in un settore di competenza di quell’accordo, gli stessi giudici devono farlo alla luce del testo e delle finalità delle pertinenti disposizioni normative sia internazionali che comunitarie: se questa soluzione valeva allora per norme di procedura che non erano (né tuttora sono) oggetto di armonizzazione comunitaria, sembra ancor più corretta adesso in riferimento a norme sostanziali che sono state oggetto viceversa di armonizzazione con la direttiva 89/104/CEE. A fronte della doppia verifica condotta dalla Corte, nel prosieguo si cercherà di affrontare unicamente gli aspetti della pronuncia relativi all’Accordo TRIPs. Con la soluzione ai due successivi quesiti la Corte traccia un quadro abbastanza chiaro in merito all’ambito di applicazione ratione materiae delle norme sul diritto di marchio dell’Accordo TRIPs.
L’Avvocato generale aveva sostenuto come funzione essenziale del “marchio” fosse quella di contraddistinguere determinati prodotti da altri della stessa specie in modo da garantire ai consumatori la provenienza degli stessi, mentre la “ditta” aveva il diverso compito di identificare un’impresa: mancando in linea di principio un rischio di confusione, questo poteva viceversa sorgere nel caso in cui l’indicazione della seconda fosse usata in concreto per le finalità del primo.
La Corte si è attenuta a tali premesse e, riprendendo la pronuncia dell’Organo di appello OMC nel caso Havana Club (2 gennaio 2002, United States – Section 211 Omnibus Appropriations Act of 1988, WT/DS/176/AB/R), ha ricordato per un verso come l’art. 16 TRIPs conferisca al titolare di un marchio registrato un livello minimo di diritti esclusivi su scala internazionale che tutti i membri OMC devono tutelare nei rispettivi ordinamenti, in particolare avverso i pregiudizi causati da terzi non autorizzati, mentre per altro verso come ai sensi dell’art. 15 TRIPs qualsiasi segno o combinazione di segni in funzione distintiva possa costituire un marchio d’impresa e godere quindi dei diritti minimi di cui sopra.
Dal combinato disposto delle due norme ha affermato l’applicabilità dell’Accordo TRIPs al caso di specie, ricavandone l’obbligo di interpretare le disposizioni nazionali sui marchi in modo da consentire al legittimo titolare l’esercizio dei diritti ex art. 16 TRIPs avverso qualunque segno usato in funzione di marchio capace di pregiudicare la funzione essenziale dello stesso, che è quella di garantire ai consumatori la provenienza del prodotto. Tale interpretazione risulta a fortiori conforme al-lo spirito dell’Accordo TRIPs in quanto individua il punto di equilibrio tra le diverse (e a volte opposte) esigenze di liberalizzazione degli scambi e di protezione della proprietà intellettuale: poiché quest’ultima è presupposto per l’esercizio di uno ius excludendi alios (e quindi per natura capace di impedire il libero scambio), il giudice nazionale avrà l’obbligo di verificare attentamente le condizioni di cui all’art. 16 TRIPs – ovvero che il segno che si pretende in violazione del marchio sia usato “nel commercio” e “per prodotti identici o simili” –, e solo a seguito del soddisfacimento di queste gli sarà possibile applicare il contenuto materiale di tale norma.
Tuttavia, questa è condizione necessaria ma non sufficiente. La Corte prosegue affermando l’obbligo per il giudice nazionale di verificare inoltre la contestuale inapplicabilità delle eccezioni previste dall’art. 17 TRIPs al caso di specie: quest’ultimo dispone che i Membri possano prevedere limitate eccezioni ai diritti di marchio, come il leale uso di termini descrittivi, purché si tenga conto dei legittimi interessi del titolare del marchio stesso e dei terzi. In particolare, poiché il terzo potrebbe usare un segno identico o simile ad un marchio registrato – ad esempio, il proprio nome o indirizzo – senza per questo ricadere nel divieto ex art. 16 TRIPs, la sentenza in esame ne ricava la necessità di valutare non solo in che maniera l’uso della ditta verrebbe inteso dai consumatori nonché il grado di rinomanza del marchio che si assume violato (in modo da escludere o meno forme di agganciamento parassitario), ma anche il livello di consapevolezza del terzo affinché sia soddisfatto il requisito dell’uso in buona fede.
In conclusione, la Corte ha affermato che, nel valutare se una ditta rappresenti un segno ai sensi dell’art. 16 TRIPs ed il cui uso possa quindi essere legittimamente vietato dal titolare di un marchio registrato, il giudice nazionale dovrà procedere ad un esame globale di tutte le circostanze pertinenti (in primis, l’etichettatura delle bottiglie) al fine di verificare se si ricada nell’ipotesi di cui all’art. 17 TRIPs o viceversa ci si trovi sub art. 16 TRIPs in presenza di forme di concorrenza sleale in danno del legittimo titolare del marchio registrato.
Con la soluzione al terzo quesito, la Corte ha avuto modo di svolgere ulteriori riflessioni sulla norma di chiusura di cui all’art. 16, n. 1, ultima frase, TRIPs, in cui si prevede che i diritti elencati immediatamente prima non sono capaci di pregiudicare eventuali diritti anteriori. In presenza di una formulazione non molto chiara, l’interpretazione più ragionevole è quella che mira a evitare che al titolare di un diritto rientrante nell’ambito di applicazione dell’Accordo TRIPs – diritto utilizzato in funzione di marchio e sorto prima di quello relativo al marchio registrato con cui si assume in conflitto – sia vietato l’uso di quello in base all’art. 16, n. 1, TRIPs.
Poiché il giudice a quo chiedeva se una ditta non registrata né tradizionalmente usata nello Stato di registrazione del marchio potesse essere considerata un diritto anteriore (e il cui uso quindi non fosse vietato dall’art. 16, n. 1, TRIPs), la Corte ha subordinato la risposta affermativa al fatto che anche la ditta rientri ratione materiae e ratione temporis nell’Accordo TRIPs.
Per quanto riguarda il primo profilo, la Corte si è giustamente attenuta a quanto stabilito nel caso Havana Club: in quell’occasione e a differenza dell’Organo di primo grado – il quale aveva erroneamente ritenuto che né l’art. 1, n. 2, TRIPs (che delimita mediante rinvio alle sezioni successive l’ambito ratione materiae dell’Accordo) né il successivo art. 2, n. 1 (operante un rinvio recettizio agli artt. da 1 a 12 e all’art. 19 della Conven-zione di Parigi) annoverassero la protezione della ditta nell’ambito materiale dell’Accordo –, l’Organo di appello ha viceversa affermato tale inclusione soprattutto sulla scorta del fatto che l’unica materia oggetto di disciplina nell’art. 8 della suddetta Convenzione è proprio la ditta. Di conseguenza, la Corte ha affermato come anche ai fini del diritto comunitario la tutela della ditta rientri nell’ambito di applicazione materiale dell’Accordo TRIPs.
In riferimento al soddisfacimento della seconda condizione, il giudice comunitario ha infine sottolineato come una ditta possa essere considerata un “diritto esistente” se rientra nell’ambito di applicazione temporale dell’Accordo TRIPs ed è anteriore al marchio registrato nel momento in cui entra in conflitto con quest’ultimo. In merito al primo punto la Corte ha affermato che, anche se l’art. 8 della Convenzione di Parigi – e quindi l’Accordo TRIPs – dispone che la tutela della ditta non possa essere subordinata ad alcuna registrazione nello Stato in cui si chiede la protezione, nulla nei due strumenti convenzionali impedisce tuttavia che uno Stato possa legittimamente imporre condizioni relative ad un uso minimo e/o una conoscenza minima nel proprio territorio, ragion per cui il requisito di cui all’art. 2, n. 3, della Toiminimilaki non appariva in contrasto con gli strumenti internazionali. Relativamente alla nozione di anteriorità, poi, ha ribadito che il fondamento della ditta deve precedere nel tempo l’ottenimento del marchio (espressione peraltro del generale principio della prevalenza del titolo di esclusiva anteriore, cardine dell’intero diritto della proprietà intellettuale). Spettava quindi al giudice nazionale appurare in concreto la sussistenza o meno di detti requisiti.
Resta brevemente da dire che il ragionamento della Corte appare decisamente corretto sul piano logico-giuridico nonché conforme ai principi generali in materia di proprietà intellettuale.